Ieri il popolo portoghese aveva l’opportunità storica di mandare all’aria il sistema politico bipolare che ha governato il paese dalla fine della dittatura fascista e di infliggere una severa punizione alla destra che da anni ormai governa il paese imponendo senza deviazione o correzione alcuna le ricette lacrime e sangue targate Troika. Una politica che la stessa Corte Costituzionale di Lisbona aveva più volte sanzionato, obbligando l’esecutivo di Pedro Passos Coelho a riscrivere, con qualche piccolo cambiamento, le norme che hanno imposto tagli ai salari e alle pensioni, privatizzazioni massicce, aumento delle imposte, precarizzazione del mercato del lavoro e quant’altro.
Dopo il “piano di salvataggio” (delle banche, ovviamente) da 78 miliardi di euro, il Portogallo è uscito dal programma di aiuti internazionali da poco più di un anno, senza chiedere ulteriore sostegno a Ue-Fmi e Bce. Il deficit è calato in quattro anni dall’11,2% al 3,2% del Pil. Insomma i conti sono migliorati – almeno per ora – permettendo agli eurocrati di indicare Lisbona come un partner (sinonimo di suddito) diligente e responsabile, al contrario dei lamentosi greci. «Il Portogallo è la migliore prova che i tagli alla spesa e l’aumento delle tasse imposti ai Paesi della periferia in cambio del salvataggio possono funzionare», aveva detto prima del voto il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble. “Il Portogallo è un modello da seguire, per le scelte politiche fatte» aveva confermato la direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde.
Poco importa che la cura da cavallo senza sconti, imposta da Unione Europea e Fondo Monetario e applicata da un premier ‘più tedesco della Merkel’ abbia gettato milioni di portoghesi nella povertà (uno su cinque), abbattendo la qualità della vita e costringendo centinaia di migliaia di loro a emigrare, spesso nelle vecchie colonie in America o in Africa.
Il voto di ieri avrebbe potuto mandare un sonoro schiaffo a burattinai e burattini dell’austerity.
E invece le elezioni legislative di ieri a Lisbona hanno sostanzialmente riconsegnato il paese alla coalizione Portugal a Frente, formata dai socialdemocratici (Psd, partito di centrodestra, nonostante il nome) e dai democristiani (CDS-PP, destra), che ottengono però ‘solo’ il 37% dei voti (38.5 contando i socialdemocratici di Madeira), perdendo parecchi punti rispetto alla volta scorsa – quattro anni fa PAF ottenne il 50.3% – e restando parecchio lontani dalla maggioranza assoluta che invece secondo i sondaggi avrebbe dovuto almeno sfiorare. Per conquistare i 116 deputati necessari a governare i due partiti di destra avrebbero dovuto conquistare almeno il 45%.
A questo punto diventano determinanti i socialisti (PS) di Antonio Costa che hanno ottenuto il 32.4% dei consensi, migliorando le proprie posizioni (nel 2011 presero il 28%) ma non riuscendo a capitalizzare più di tanto lo scontento di quella parte dell’elettorato conservatore in libera uscita. D’altronde i socialisti sono stati penalizzati dalla scarsa verve che ha caratterizzato la loro opposizione all’austerità applicata da Passos Coelho, oltre che dai numerosi scandali per corruzione che hanno colpito i loro dirigenti, a partire dall’ex premier José Sócrates reduce da alcuni mesi di carcere.
In terza posizione, con un raddoppio dei voti – ieri il 10.2% contro il 5.2 del 2011 – si è piazzata la coalizione di sinistra europeista Bloco de Esquerda. Gli ex trozkisti, ex maoisti ed ecosocialisti si richiamano all’esperienza di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna e pur criticando fortemente le politiche di riduzione del debito e l’austerity in quanto tale non mettono affatto in discussione una Unione Europea che ha governato Lisbona in questi ultimi anni all’insegna dello slogan ‘sovranità zero’.
Da parte sua la coalizione tra il Partito Comunista, i verdi ed altre forze minori della sinistra alternativa (CDU) si è piazzata in quarta posizione ottenendo l’8.3% dei consensi. Un risultato discreto (nel 2011 aveva ottenuto il 7.9%) ma non esaltante vista la capillare mobilitazione che ha visto negli ultimi anni i comunisti in piazza reclamare soluzioni drastiche contro il saccheggio del paese e mettere in discussione la permanenza di Lisbona nell’Unione Europea e in particolare nell’Eurozona.
Dopo lo spoglio del 99% delle schede e l’assegnazione di 226 seggi sui 230 totali di cui è composta l’assemblea legislativa di Lisbona, le destre ottengono 104 deputati (-28), il Ps 85 (+11), il Bloco de Esquerda 19 (+11) e la Cdu 17 (+1). Un deputato lo ha ottenuto anche il PAN (Partito Persone-Animali-Natura) che ha eletto il suo capolista a Lisbona, cosa che non sono riusciti a fare i nuovi partiti ‘anticasta’ come Livre/Tempo de Avançar o i populisti di destra come il PDR. Per intenderci, in Portogallo anni di dittatura dell’austerity non hanno affatto sconvolto la precedente geografia politica come in Grecia o nello Stato Spagnolo, e non c’è stato alcun effetto ‘Podemos’.
Mentre durante la giornata elettorale, che è trascorsa in totale tranquillità, sembrava che ci dovesse essere un aumento della partecipazione di qualche punto percentuale, alla fine il tasso di affluenza è stato simile alla volta scorsa, e abbastanza basso: 57%. Una astensione del 43% quindi, alla quale occorre aggiungere un 2.1% di schede bianche e un 1.6% di schede nulle. Di fatto il nuovo parlamento di Lisbona è espressione del 53% appena dei 9.6 milioni di aventi diritto al voto, segno che anche in Portogallo la fiducia nel sistema politico non è particolarmente alta.
Dal punto di vista geografico, da notare che il paese è uscito dal voto di ieri letteralmente spaccato in due: le destre prevalgono a Lisbona e nel centro-nord, i socialisti hanno la meglio nelle regioni interne del centro, in tutto il sud e nelle Isole Azzorre.
Se anche la destra ha vinto e tira un sospiro di sollievo, ora si pone il problema della formazione del nuovo governo. Che potrebbe nascere soltanto da una grande coalizione tra Portugal a Frente e Socialisti; Passos Coelho dovrebbe moderare un po’ il suo programma di controriforme per accontentare alcune rivendicazioni di Costa compatibilissime con i diktat di Bruxelles e Francoforte. Ma l’abbraccio con le destre potrebbe essere fatale, alla lunga, per i socialisti.
Alcuni analisti parlano invece della possibilità di un “governo delle sinistre”, cioè di un’alleanza tra socialisti, Bloco de Esquerda e Comunisti. Un’alleanza tutta teorica, viste le enormi differenze programmatiche tra le tre formazioni e la prospettiva, tutt’altro che esaltante per i partiti di sinistra, di fare la stampella alle “politiche rigoriste dal volto umano” dei socialisti. Una prospettiva che forse può convincere alcuni settori del BE in nome della cacciata di Coelho dal potere, ma non certo i comunisti che pretendono una rottura radicale con il pilota automatico imposto da Ue e Fmi.
Certo, le destre potrebbero anche governare in solitario con un esecutivo di minoranza, ma l’ultima volta che qualcuno ci ha provato è andata male. Nel 2011 i socialisti che governavano senza maggioranza assoluta hanno dovuto rinunciare quando le destre si rifiutarono di astenersi sulla Legge di Bilancio e spianarono la strada alla vittoria di Passos Coelho.
In attesa di capire come Coelho uscirà dall’impasse – ammesso che ci riesca e che il paese non debba tornare presto al voto – di sicuro il paese non avrà quel governo stabile che i poteri forti europei auspicavano alla vigilia. Il che di questi tempi può rappresentare un punto da cui ripartire per i movimenti che intendono mettere i bastoni tra le ruote ai mercati, alla Troika e all’Unione Europea.
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