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Egitto, fuochi di ballottaggio

Si dice di tutto nei frenetici giorni che precedono il ballottaggio presidenziale: invalidare il voto, boicottarlo, scegliere il minore fra i due mali. Accanto ai diretti apparati di partito e ai gruppi ufficiali e ufficiosi di sostegno il panorama si mostra diviso non in due o tre ipotesi, addirittura in un numero superiore alle tredici candidature sopravvissute alla scrematura della Suprema Commissione Elettorale. Il Paese è diviso non solo fra l’islamico Mursi e il mubarakiano Shafiq ma fra chi li ritiene entrambi insopportabili, chi parla di rivoluzione tradita, di coalizione antipassato, di fronte pro futuro, di salvezza nazionale che deve andare oltre le stesse Istituzioni svuotate della loro sacralità, siano esse Camere parlamentari e Assemblea Costituente oppure le Forze Armate. Per un periodo il cittadino comune, quello presente in piazza Tahrir accanto agli attivisti e chi non ci ha mai messo piede, ha riposto fiducia nella magistratura che, nel caso delle Ong camuffate, rintuzzava le pesanti ingerenze statunitensi. Dopo la sentenza del 2 giugno, salvifica per gli ufficiali massacratori e i tangentisti figli del raìs, cade anche questo totem.

Eppure lo sbandamento e la mancanza di riferimenti non possono che aiutare la conservazione. E’ la spirale malefica in cui si dibatte la rivolta più sentita e partecipata delle primavere arabe. I mesi trascorsi hanno posto sul tavolo tante questioni, proposto sia novità sia vecchiume riverniciato a nuovo ma la prova del nove del taglio col passato non s’è ancora compiuta e forse non si compirà. Anche la sentita reazione all’ultimo sopruso che subiscono i familiari dei martiri del 25 gennaio può incartarsi nel vicolo cieco di un boicottaggio dell’ultimo atto delle presidenziali che non sarà maggioritario. E’ vero che la metà della popolazione non si è espressa neppure al primo turno, ma pure con possibili basse percentuali di elettori la “democrazia rappresentativa” è destinata a proseguire il suo percorso, che potrebbe ripresentare sintomi di antiche malattie. Se non si ha la forza di far dichiarare incompatibile con la carica di Capo dello Stato un residuato di regime come Shafiq, in base a quella norma (Disenfranchisement law) che ha fatto escludere potentati del calibro di Seleiman, l’astensionismo richiesto a gran voce da leader piazzaioli difficilmente potrà favorire cambiamenti.

L’ultima apparizione pubblica, senza contraddittorio e tramite il media televisivo, del ricco magnate cairota è stata una lezione di boria. L’ex generale ha puntato l’indice contro il settarismo della Fratellanza Musulmana, ma più parlava più il suo argomentare si tingeva di faziosità. Dopo aver risfoderato il per lui vantaggioso refrain del bisogno di ordine e della paura d’uno Stato confessionale ha sparato bordate cieche contro la Confraternita accusandola di aver sostenuto Mubarak (sic) e stabilito con lui piani segreti. A suo dire i militanti islamici avrebbero partecipato alla repressione della “battaglia dei cammellieri” del 2 febbraio 2011, una delle occasioni in cui erano in azione le squadre dei picchiatori prezzolati, allora i Fratelli avrebbero ucciso parecchi manifestanti. Shafiq è andato a ruota libera con le accuse e quando il conduttore del canale CBC gli chiedeva le fonti di tali notizie candidamente ha risposto d’averle lette su un quotidiano. Chi rammenta quei giorni sa che Shafiq sedeva nel governo Mubarak, ne condivideva metodi repressivi e sangue versato. Ma oggi tanti elettori non ricordano o non vogliono sapere e certi commentatori attribuiscono all’ex ministro patenti di equilibrio. I dieci giorni che seguiranno si preannunciano focosi.

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