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Il soldato Obama resta in Afghanistan

Obama non chiuderà il proprio mandato col promesso disimpegno militare afghano. Quando, a inizio 2017 lascerà lo Studio Ovale di Washington, 5.500 soldati, la metà delle attuali truppe statunitensi in Afghanistan, resteranno al loro posto. Potrebbero riaumentare se il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti dovesse essere un repubblicano, Trump o chi per lui. Ma la stessa decisione presa da un presidente democratico, la ridanciana Hillary o chi per lei, non stupirebbe, visto che l’occupazione di quel Paese prosegue da quattro mandati presidenziali (due Bush jr, due Obama) e tre missioni di “pace” (Enduring Freedom, Isaf, Resolute support). Del resto l’agognato – da Obama e dai generali del Pentagono – Bilateral Security Agreement, inizialmente pattuito da Karzai ma non firmato e siglato dopo l’insediamento d’un anno fa dal presidente Ghani, prevedeva una permanenza dell’US Army fino al 2016 con estensione nel tempo. Una presenza ridotta, rispetto ai grandi numeri voluti dallo stesso Obama nel 2010 (oltre 100.000 uomini, gradualmente rimpiazzati da un numero mai chiarito di contractors), mirata principalmente a consolidare e allargare nove basi aeree (Bagram, Kabul, Jalalabad, Kandahar le maggiori) dalle quali continuare a controllare i cieli, portare attacchi a ogni genere di nemico colpendolo con caccia e droni. Non necessariamente i talebani; in vari casi civili e Ong sgradite, com’è accaduto di recente a Kunduz a Medecins sans frontières che ha lasciato sotto le bombe d’un AC-130 dodici fra medici e infermieri.

Nel ridisegno geopolitico del Medio Oriente, la piazza afghana continua a vestire un ruolo strategico per la sua centralità nella mappa asiatica, perché consente di controllare da vicino l’espansionismo economico cinese, ampiamente presente nello sfruttamento del sottosuolo afghano, e tener d’occhio due potenze locali. Quella avversa degli ayatollah iraniani, attualmente in una condizione di allentamento della tensione dopo l’accordo sul nucleare, e quella alleata pakistana che preoccupa la Casa Bianca per le tante contraddizioni di politica interna. Il Pakistan è ampia area rifugio della galassia talebana, soprattutto nel cuscinetto tribale delle Fata, e proprio tale presenza è uno dei motivi del mezzo ripensamento di Obama che si riverserà sicuramente sul nuovo inquilino di Washington. I Taliban, oggi in buona parte riuniti attorno alla guida del mullah Mansour, negli ultimi tempi hanno messo a nudo il grande bluff americano riguardo agli sbandierati: azzeramento del terrorismo, sicurezza nazionale, creazione d’un esercito afghano autosufficiente, presenza di un governo democratico. Per i due mandati di Hamid Karzai, creatura politica voluta da Bush per avvalorare la tesi d’una democratizzazione della nazione, questo è stato il mantra ripetuto sino alla nausea dalla propaganda delle truppe Nato, alleati Ue compresi. Cui hanno continuato a offrire il la i media mainstream. La realtà è mostrata dai fatti: i turbanti armati sono presenti in 24 delle 34 province afghane e puntano alle grandi città, come ha mostrato l’assedio di Kunduz, lasciata definitivamente solo ieri con la promessa d’un ritorno.

Obama è costretto a giustificare la permanenza statunitense riconoscendo quel che Stato Maggiore e portavoce hanno a lungo nascosto: l’incapacità dei 350.000 soldati afghani di tener testa ai guerriglieri. Affermando che il Paese “non diventerà il rifugio dei terroristi” lo fa seguire da un “ce ne andremo quando i talebani troveranno un accordo col governo di Kabul”. Ossimori politici che riportano alla memoria aneddoti sui suoi generali pronti a offrire ai reparti in ricognizione indicazioni sui talebani, valutati come buoni o cattivi rispetto alla possibilità di fare con loro accordi. Traspare tutta l’approssimazione con cui le amministrazioni statunitensi conducono una politica estera basata unicamente sui propri interessi geostrategici. Visto che associazioni non governative locali e i loro sostenitori sparsi per il mondo, le Ong estranee al business degli aiuti della cooperazione internazionale, continuano a denunciare i crescenti elementi peggiorativi nella vita quotidiana, frutto d’una cura “normalizzante” e “democratica” durata 14 anni. Anche i dati Onu sono spietati: lo spargimento di sangue fra i civili prosegue e aumenta fra i bambini, povertà e disoccupazione sono piaghe impossibili da sanare senza un’economia autosufficiente bloccata da un assistenzialismo che produce spreco di denaro (oltre mille miliardi di dollari spesi, gestiti unicamente da politici corrotti e signori della guerra). 85% di donne ancora analfabete, 87% di loro esposte a violenza, secondo Paese al mondo per mortalità di parto, 164° (su 165) per mancanza di diritti sulle donne. Ne parla l’Onu, di questo la Casa Bianca tace.

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