Questo lunedì, 19 di ottobre, è iniziato a Madrid il processo contro la storica organizzazione internazionalista basca Askapena. All’entrata dell’Audiencia Nacional, uno dei cinque imputati, Unai Vázquez[1], ha denunciato per l’ennesima volta la natura politica dell’attacco giudiziario in corso. “Non importa se ci condanneranno –ha affermato- siamo perfettamente coscienti che questo è un tribunale speciale, e che in ogni caso, come disse Fidel Castro, la Storia ci assolverà. Indipendentemente dalla sentenza giudiziaria”. I cinque militanti “non si considerano colpevoli, ma nemmeno vittime –si legge in un dossier preparato dal collettivo sul caso-. Visto che erano consapevoli fin dall’inizio della corruzione, delle politiche di repressione, delle ragioni di Stato, degli interessi dei partiti…”
Proprio pochi giorni fa, in un articolo per il “Diagonal”, la giornalista Ter García ha evidenziato come tra i capi d’accusa contro Askapena ci siano anche le campagne di boicottaggio contro la Coca Cola e Israele, la partecipazione a diversi Forum Sociali Mondiali, l’organizzazione di brigate di solidarietà internazionalista e le relazioni con i comitati di solidarietà con Euskal Herria. Secondo l’istruttoria dell’Audencia Nacional, queste attività sarebbero state realizzate dall’organizzazione internazionalista per conto dell’organizzazione armata ETA. L’accusa ha quindi chiesto la condanna a sei anni di carcere per ognuno dei cinque imputati, per reato di “collaborazione con banda armata”. Inoltre il tribunale politico di Madrid chiede la dissoluzione del collettivo, ma anche di Askapeña – un’associazione culturale legata alla piattaforma che fomenta il modello popolare delle tradizionali feste di Bilbao – di due cooperative che si dedicano al commercio solidale, e dell’associazione culturale Herriak Aske.
Allora, nelle prime udienze di ieri, i cinque militanti hanno dovuto spiegare che le campagne di boicottaggio dei prodotti israeliani o della Coca Cola non rispondono a ordini arrivati da un’organizzazione clandestina, ma a decisioni concertate tra i movimenti internazionalisti e antiglobalizzazione in diversi Forum Sociali. Gli imputati hanno dichiarato che non rinnegheranno il lavoro internazionalista realizzato perché “non c’è nessuna prova che queste attività siano vincolate a una organizzazione armata”, e che lasceranno agli avvocati della difesa il compito di smontare l’ingegneria giuridica.
In linea con altri casi inerenti alla sinistra indipendentista in Euskal Herria, sembra che sia stata dichiarata prima la sentenza finale e poi l’argomentazione giuridica alla base dell’accusa. D’altronde l’indagine contro Askapena rientra in una più amplia e lunga strategia dello Stato spagnolo. Il caso è stato curiosamente innescato più di cinque anni fa dalla denuncia di diversi membri dell’organizzazione che, di ritorno dalla Colombia, ricevettero minacce di morte da parte del gruppo paramilitare colombiano di estrema destra “Aguilas Negras”. La denuncia causò il tentativo (poi fallito) dell’allora magistrato Baltasar Garzón di vincolare Askapena con la guerriglia di sinistra colombiana. Famoso per la creazione della teoria giuridica del “tutto è ETA”, Garzón è considerato il responsabile della criminalizzazione di diverse organizzazioni politiche e sociali dell’universo indipendentista basco e dell’incarcerazione di un gran numero di militanti, che hanno denunciato poi essere stati torturati nel periodo di detenzione. Ma l’attività di Garzón è solo una rotella di un ingranaggio più grande che articola la repressione della sinistra indipendentista basca. Attualmente –spiegano ancora dall’organizzazione- oltre ai 2000 baschi rifugiati in diversi paesi del continente africano e americano, ci sono ancora 463 prigionieri e prigioniere politiche basche disperse nelle carceri dello Stato Spagnolo e Francese, altre 180 persone sono in attesa del processo, e negli ultimi tempi diverse retate hanno colpito proprio le organizzazioni che rivendicano i diritti dei prigionieri e dei loro familiari. Avvocati compresi.
Se da una parte ETA ha avviato unilateralmente le procedure per il termine del conflitto armato, dall’altra lo Stato spagnolo continua a utilizzare il suo pesante complesso militare e giudiziario per reprimere le diverse facce del movimento indipendentista basco. D’altronde, la questione basca continua ad essere centrale nelle dinamiche politiche dello Stato, e la costruzione mediatica del nemico interno porta voti a chi lo combatte. Proprio di questo hanno parlato nell’ultima parte del faccia a faccia televisivo, Pablo Iglesias, segretario di Podemos, e Albert Rivera, leader di Ciudadanos (il nuovo partito della borghesia spagnola che sta raccogliendo voti su voti grazie al malcontento verso il governo di Mariano Rajoy). Seppur con diverse prospettive e posizioni, infatti, sia Podemos che Ciudadanos hanno interesse a presentarsi come partiti della stabilità, e stanno quindi evitando di affrontare la questione catalana e basca, imputando alla corruzione e incapacità della “casta” l’auge dei partiti e dei movimenti indipendentisti.
Pablo Iglesias ha riconosciuto l’ingiustizia delle misure carcerarie applicate ai detenuti politici baschi e ha dichiarato che Arnaldo Otegi (l’ex portavoce di Batasuna in carcere da sei anni per reati d’opinione), non “sarebbe mai dovuto entrare in carcere”, ma ha poi negato –come Albert Rivera- la possibilità di un indulto per il “Nelson Mandela basco”.
Ma al di là delle questioni e turbolenze elettorali che interessano lo Stato spagnolo, l’inizio del processo contro Askapena sembra essere l’ennesimo anello della catena repressiva che imprigiona il popolo basco tra lo Stato spagnolo e quello francese. Una catena fatta di retate, azioni di forza, ma anche di arresti propagandistici, di negazione dei diritti sociali e politici all’insieme della società civile. Come ha spiegato proprio Otegi nella recente intervista rilasciata al giornale catalano “La Directa”: “non esiste un processo di pace. Infatti per esistere un processo di questo tipo è condizione imprescindibile che le due parti abbiano la volontà e l’interesse per portarlo avanti, mentre allo Stato solamente interessa che non si chiuda il ciclo anteriore, anche a costo di mantenerlo aperto artificialmente.”
Insomma, Askapena sembra essere l’ennesimo ostaggio di uno stato d’eccezione permanente, in cui anche il boicottare la Coca-Cola può funzionare come capo d’accusa per la macchina repressiva del potere costituito.
[1] Qui un’intervista a Unai: https://contropiano.org/articoli/item/29495
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