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Il regime turco spegne i social, giro di vite contro la stampa

Proprio non è andato giù al regime turco che decine di milioni di turchi abbiano potuto vedere la foto del procuratore Mehmet Selim Kiraz terrorizzato mentre un membro del Dhkp-C gli puntava una pistola alla testa all’interno del suo ufficio al sesto piano del palazzo di giustizia di Istanbul. Non tanto perché l’immagine in qualche modo costituisce un elemento di propaganda per un gruppo armato che ha un certo seguito ma che non gode certo di un consenso di massa neanche tra i settori sociali di sinistra. Ma perché quella foto rompe l’incanto di una propaganda che per anni ha descritto il regime autoritario di Ankara come garante dell’ordine e della sicurezza, in grado di controllare tutto e tutti. Uno ‘sputtanamento’ non solo nei confronti di una certa opinione pubblica in cerca di legge e ordine – il che è quanto mai grave a poche settimane da cruciali elezioni – ma anche nei confronti di cordate di imprenditori internazionali che all’improvviso hanno scoperto che i propri investimenti nel paese potrebbero non essere così sicuri come loro promesso da Erdogan e soci. 

E così il regime dell’Akp ha reagito in modo duro e scomposto, mettendo paradossalmente a nudo la sua estrema debolezza proprio mentre ricorre per l’ennesima volta alle maniere forti. Ieri per qualche ora infatti l’esecutivo – poco importa l’anonima e oscura sigla dell’ente preposto alla vigilanza sull’etere e il nome del giudice che hanno formalmente adottato il draconiano provvedimento – ha letteralmente spento gli odiatissimi social network. Per alcune ore Facebook e Twitter sono stati inaccessibili per moltissimi utenti turchi, così come Youtube che è tornata a funzionare ancora più tardi rispetto ai social media colpevoli di aver fatto rimbalzato l’immagine tabù su milioni di monitor e smartphone aggirando così la censura governativa che nei giorni scorsi aveva colpito quattro importanti quotidiani contro i quali è stata aperta un’inchiesta nientemeno che per ‘propaganda terrorista’. Il loro crimine? Aver pubblicato una foto che da una settimana campeggia su centinaia di testate internazionali, ma che l’opinione pubblica interna non deve vedere, quella di un magistrato che il regime ha goffamente strumentalizzato da morto dopo averlo fatto ammazzare dalle teste di cuoio che teoricamente avrebbero dovuto salvarlo dai sequestratori. Kiraz, ucciso da dieci pallottole sparate dai corpi speciali durante il blitz nel palazzo di giustizia di Caglayan – stessa sorte toccata ai due militanti del Dhkp-C – è stato celebrato da morto come ‘eroe della nazione’ e l’Akp al governo non può tollerare che questa artefatta sceneggiatura venga messa in discussione da un’istantanea che parla assai più chiaramente di tante formulazione ufficiali pompose.

Il portavoce della presidenza, Ibrahim Kalin, ha detto che la procura ha voluto bloccare l’accesso ai siti dei social media perché alcune testate hanno agito “come se stessero facendo propaganda al terrorismo“, nel condividere le immagini del magistrato sequestrato. “Ciò che è accaduto dopo (la morte del procuratore, ndr) è orrendo tanto quanto l’incidente in sé”, ha aggiunto Kalin.

La stampa d’opposizione e indipendente turca, islamica e laica, non ha preso bene, naturalmente, l’ennesimo giro di vite del regime. Secondo Cumhuriyet, che parla di “Democrazia dimezzata”, la Turchia del presidente islamista ha imposto “il maggiore black-out finora delle reti sociali”. Il quotidiano Birgun avverte che in vista delle cruciali elezioni politiche del sette giugno il paese si avvia verso “il caos e la censura”, Yurt titola “gigantesca censura”, e Taraf rileva che come aveva promesso Erdogan l’anno scorso Ankara “sradica twitter”.

Ma un Erdogan sempre più debole rischia che le sue maniere gli si ritorcano contro, e che l’ennesimo giro di vite contro la stampa possa rivelarsi un boomerang dimostrando il suo crescente isolamento interno e internazionale. Se è evidente che non possibile pensare che giornali come Hurriyet siano imputabili di ‘propaganda terrorista’ come afferma il governo, qualcuno potrebbe cominciare a pensare che neanche tanti attivisti, intellettuali, sindacalisti e giornalisti finiti in galera negli ultimi anni con accuse simili siano dei terroristi solo perché criticano ferocemente le politiche autoritarie del ‘sultano’ affamato di potere.

Ma qualche punto Erdogan l’ha segnato, di fatto obbligando i cedevoli gestori di Twitter, Facebook e YouTube a rimuovere dalle proprie piattaforme turche la foto incriminata, piegandosi così al volere del presidente e della cupola dell’Akp. Meno fortuna hanno avuto invece circa 150 siti internet che ieri si erano improvvisamente spenti per lo stesso motivo e che ancora, in molti casi, non sono raggiungibili dal territorio turco. Alcuni non lo saranno mai più. E presto potrebbe toccare ad altri siti, visto che i provider TTNET, Turkcell, Superonline, Avea e altri potrebbero ricevere presto un ordine simile a quello inviato ieri ad altre imprese ad imporre ai siti che l’abbiano pubblicata la rimozione della foto incriminata e articoli che parlavano della vicenda, evidentemente sgraditi alle assai poco tolleranti autorità di Ankara. Anche Google è stato minacciato di oscuramento se non bloccherà i siti che riprendono la foto; secondo l’agenzia di stampa Anadolu, se non farà ‘pulizia’ il blocco del motore di ricerca sarà effettivo all’1:30 locale, mezzanotte e mezza in Italia.

Da ieri in rete girano numerosi consigli agli internauti turchi per aggirare la censura. Il principale consiglio è quello di cambiare dalle impostazioni del pc il server Dns che permette di accedere a Internet. L’indicazione per gli utenti turchi è di usare le seguenti cifre, 8.8.8.8 (il ‘Public DNS’ di Google) come server primario. Un altro modo per aggirare il blocco è installare una Vpn (sigla per Virtual Private Network), cioè una rete di telecomunicazioni privata (ce ne sono molte anche gratuite); oppure usare Tor (The Onion Router) un sistema di comunicazione anonima per Internet disponibile per molti sistemi operativi. Grazie a questi e altri sistemi ieri nonostante l’oscuramento ordinato dal tribunale di Istanbul circa tre milioni di tweet sono stati postati su Twitter. 

Non è la prima volta che il regime turco spegne internet e si accanisce in particolare contro i social media. Lo aveva già gatto nel corso del 2013, all’epoca dei moti popolari contro il governo scatenati dalla feroce repressione contro gli occupanti di Gezi Park, ad Istanbul. L’anno scorso poi Ankara aveva modificato alcune leggi per permettere all’esecutivo di poter spegnere più rapidamente e facilmente i siti web sgraditi e tra il 21 e il 31 marzo 2014, l’allora premier Tayyip Recep Erdogan decise di spegnere temporaneamente Twitter, Facebook e YouTube, colpevoli di aver diffuso documenti, video e intercettazioni audio che provavano l’elevato tasso di corruzione all’interno del governo e dell’entourage dell’attuale presidente. Svergognato, l’Akp ha reagito con un’epurazione di massa di poliziotti, avvocati, giudici, procuratori e giornalisti rimossi dal loro incarico e licenziati – e in alcuni casi sbattuti in galera – con l’accusa di farsi strumento di un complotto internazionale e delle provocazioni dell’imam Fethullah Gulen volto a destabilizzare il regime turco diffondendo informazioni false.

Che credibilità democratica ha il regime turco quando emette un mandato di cattura internazionale nei confronti di quello che i media italiani descrivono come un ‘terrorista’ e ‘reclutatore’ del Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo arrestato alcune ore fa a Mestre? L’uomo era in vacanza in Italia con la sua famiglia e si è registrato in un hotel della città lagunare con il suo nome – segno che non aveva nulla da nascondere e che forse era davvero in vacanza? – ma ha fatto scattare l’allarme tra i servizi di sicurezza italiani che lo hanno arrestato in ottemperanza di un mandato di cattura internazionale emesso da Ankara. La Turchia pretende che l’uomo, che risiede ormai all’estero da parecchi anni, sconti una pena per reati di terrorismo per un attentato ad una banca di Konya al quale avrebbe forse partecipato nel 1995 per conto del Dhkp-C.

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