L’intervento russo in Siria continua a suscitare novità non indifferenti nel quadro mediorientale. Come il viaggio a sorpresa del leader siriano Bashar Assad a Mosca, il primo da quando nel 2011 il paese è scosso da una guerra civile combattuta per procura anche da numerose potenze mondiali e regionali grandi e piccole. Il viaggio che ha portato Assad a Mosca rappresenta inoltre una provocatoria (nei confronti dell’Occidente, ovviamente) violazione delle sanzioni imposte da Usa e Ue al regime di Damasco.
Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha parlato di una «visita di lavoro» durante la quale «i due leader hanno discusso la lotta contro i gruppi terroristici, la continuazione dei raid russi e i piani militari siriani». Putin ha anche espresso «preoccupazione» per gli almeno 4000 ex cittadini sovietici presenti nei ranghi dei gruppi ribelli in Siria: «Non possiamo permettere che adoperino contro la Russia l’esperienza militare e l’indottrinamento ideologico che hanno maturato».
Secondo una trascrizione fornita dal Cremlino, Putin si è rivolto ad Assad chiamandolo «amico» e aggiungendo che «la Russia è pronta a contribuire non solo con l’azione militare ma anche al processo politico per portare pace alla Siria».
Di fatto l’intervento russo ha non solo rilegittimato Assad a livello internazionale ma ha anche imposto alle potenze regionali che sostengono i ribelli islamisti – Stato Islamico ed Al Qaeda compresi – ma anche agli Stati Uniti e all’Unione Europea di dichiararsi disponibili alla permanenza al potere dell’attuale leader anche nel corso della transizione che pure Mosca – e lo stesso governo siriano – prevedono a chiusura (almeno si spera) della guerra civile in corso ormai da quasi cinque anni.
Né Putin né il regime negano che di dovrà andare ad una trattativa per dirimere gli opposti interessi delle parti in lotta all’interno del paese e soprattutto del contenzioso aperto in Siria da numerose potenze straniere. Ma mentre fino all’inizio dei bombardamenti di Mosca sui territori controllati dai jihadisti le petromonarchie, la Turchia e Washington, insieme ad alcuni governi europei, puntavano alla semplice rimozione violenta del regime capeggiata da Assad conseguente ad una vittoria militare delle fazioni cosiddette ribelli, oggi i vari burattinai dei gruppi armati islamisti e jihadisti devono riconoscere che quell’ipotesi non è realistica e che al tavolo della trattativa dovranno sedersi anche il governo di Damasco, quello iraniano e quello russo. Un cambiamento non da poco. Addirittura il sempre più debole e criminale regime turco si sarebbe convinto ad aprire ad un “periodo interinale di sei mesi” durante il quale Assad potrebbe restare al potere prima della formazione di un governo di transizione.
Sul fronte delle operazioni militari, però, le cose non stanno andando esattamente come previsto. Anche se l’offensiva di terra ha permesso alle truppe governative e a quelle di Hezbollah e iraniane di riconquistare alcuni villaggi intorno ad Aleppo e di far diminuire l’intensità dell’assedio jihadista sulla città parzialmente occupata dai ‘ribelli’ e sulle roccaforti del regime – Damasco e Latakia – è anche vero che le linee dello Stato Islamico, di Al Nusra, dell’Esercito della Conquista e di altri gruppi combattenti reggono. D’altronde i cosiddetti ‘ribelli’ sono pesantemente armati e riescono spesso a mettere in difficoltà i carri armati e i blindati lealisti con sofisticate armi anticarro gentilmente fornite dai loro padrini di Riad. Proprio nelle ultime ore la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha denunciato che i fondamentalisti continuano a ricevere attrezzature belliche e sostegno dall’estero: “Abbiamo anche informazioni che i gruppi terroristici continuano a ricevere spedizioni di attrezzature e forze vive dall’estero, questa è una tendenza molto pericolosa (…) Tali fatti ci costringono a ritornare sulla questione di quanto uno o l’altro dei lati coinvolti negli eventi siriani e nella risoluzione del conflitto siriano e come gli obiettivi coincide con il finanziamento e supporto tecnico dei gruppi armati anti-governativi”.
L’aviazione militare russa ha intensificato i raid sulle regioni di Hama, Idlib, Latakia, Aleppo e Deir ez-Zor nel tentativo di stroncare la resistenza delle milizie fondamentaliste, portandoli da 60 a 80 al giorno. Ma i bombardamenti difficilmente riescono ad andare a segno ed in zone altamente popolate spesso causano un elevato numero di vittime civili il cui bilancio reale viene ovviamente gonfiato dai gruppi ribelli siriani protetti da Washington e dalle varie potenze regionali con l’intento di scatenare le opinioni pubbliche internazionali contro quella che i padrini della guerra civile siriana ritengono una indebita invasione di campo.
Mosca, che ha smentito il bombardamento di un ospedale da campo nella località di Sarmin e l’uccisione di 13 civili, ha anche negato l’utilizzo di ‘bombe a grappolo’ denunciato invece dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani e da altre presunte ong, molte delle quali sono in realtà solo sigle che fanno riferimento al variegato arcipelago dei gruppi ribelli sostenuti da Washington e dalle petromonarchie.
Ma ora anche il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha affermato che i raid aerei russi in Siria stanno rendendo più difficili le operazioni di soccorso umanitario dei civili che soffrono le conseguenze dei combattimenti.
Se su un fronte la Russia intensifica i bombardamenti e fornisce copertura alle operazioni di terra dell’esercito siriano contro i ribelli delle diverse famiglie islamiste nell’ovest e nel nord della Siria, dall’altra il Cremlino è impegnato in una fitta rete di negoziati e contatti con tutti gli attori della vicenda siriana.
“Non si erano mai tanto telefonati e visti come in questi giorni” scrive una nota dell’agenzia Askanews, rendendo bene il fitto scambio di relazioni intessute da Putin mentre i suoi bombardieri martellano i riferimenti locali dei paesi citati, Usa, Arabia Saudita, Turchia in particolare. E per venerdì prossimo è previsto anche un incontro a Vienna per i rispettivi ministri degli Esteri. Mosca ha inviato i propri emissari più volte anche in Israele, tentando con le minacce e con le promesse di tenere Tel Aviv fuori dalla contesa.
Ieri Putin ha prima avuto un lungo colloquio telefonico con il presidente turco Erdogan, e poi con il sovrano saudita Salman bin Abdulaziz Al Saud e quello della Giordania Abdullah II, e poi ancora con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Dopodiché il Cremlino ha annunciato che il ministro degli Esteri di Mosca Sergei Lavrov e il Segretario di Stato americano John Kerry si vedranno il 23 ottobre a Vienna per discutere del futuro della Siria con i colleghi di Turchia e Arabia Saudita.
Il braccio di ferro tra le varie potenze si incentra per ora sulla presenza in scena di Bashar Assad. Per ora Mosca non parla di un’uscita dai giochi del leader siriano, ed anzi il viaggio a Mosca sembra volerlo legittimare di fronte ai vari contendenti. Compresi gli Stati Uniti che hanno appena siglato con i rappresentanti russi un accordo per la sicurezza nei cieli siriani dove si incrociano ormai sempre più spesso i caccia di Washington e Mosca.
Ora molto dipenderà da come andrà l’incontro al vertice di venerdì. Una fonte del ministero degli Esteri russo ha detto che Mosca non è contraria al fatto che altri Paesi si uniscano alla riunione prevista in Austria. Tuttavia balza all’occhio l’assenza di Iran e Qatar, che sono parte in causa nel conflitto su fronti opposti.
Addirittura il ministro degli Esteri del Qatar, Khalid al Attiyah in queste ore non ha escluso un’invasione militare della Siria, come aveva fatto alcune settimane fa il regime saudita dopo l’inizio dei raid russi. “Insieme con i nostri fratelli sauditi e la Turchia non escludiamo alcuna ipotesi di difendere il popolo siriano”, ha detto in un’intervista alla Cnn araba il dirigente qatariota.
Da parte loro gli iraniani sono ampiamente coinvolti nel centro di comando che dalla capitale irachena Baghdad coordina l’azione contro lo Stato Islamico nell’altro paese dove è in atto l’assalto dello Stato Islamico. Oggi Mosca ha inoltre lasciato aperta l’ipotesi di un prestito da ben 5 miliardi dollari per infrastrutture e ricerca geologica per Teheran, un modo per rafforzare ulteriormente l’asse russo-iraniano.
Di certo Mosca ha ottenuto una legittimazione a tutto campo del proprio ruolo internazionale, anche in Medio Oriente, teatro dal quale negli ultimi decenni la Russia era stata completamente estromessa. Col risultato che quell’isolamento politico, diplomatico, commerciale e militare imposto alla Federazione Russa dopo la reazione di Mosca al golpe filoccidentale andato in scena in Ucraina nel febbraio del 2014 si sta se non rompendo per lo meno allentando.
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