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Un compromesso di basso profilo sui migranti al “vertice dell’Est”

Un vertice per tamponare le falle nel settore Est dell’Unione Europea, squassato dalle risposte nazionaliste (Ungheria, in primo luogo) e dai problemi oggettivi posti dal flusso migratorio attraverso la rotta balcanica. Un vertice finalizzato a ridurre i conflitti interni, più che a dare risposte all’altezza dei problemi, cui hanno partecipato i leader di Germania, Austria, Grecia, Romania, Ungheria, Croazia, Slovenia, Bulgaria, Serbia, Albania e Macedonia (gli ultimi tre non sono membri della Ue, al momento).

Inevitabile, dunque, che le decisioni prese ieri a Bruxelles – un piano in 17 punti per realizzare una precaria accoglienza per appena 100.000 profughi (soltanto in Slovenia ne sono entrati 62mila nell’ultima settimana) – riducano le tensioni reciproche senza però affrontare nella sua dimensione reale “l’emergenza”. Insomma, grande dispendio di parole impegnate, poche misure concrete, comunque sottodimensionate e con al centro il principio dell’identificazione come condizione per avere diritto all’accoglienza.

Jean-Claude Juncker è riuscito ad abborracciare l’ennesimo compromesso quando tutto lasciava presagire un fallimento. E non sarebbe stato un passaggio indolore, perché il premier sloveno Miro Cerar – il paese su cui si è scaricata negli ultimi giorni buona parte della pressione, dopo che l’Ungheria ha finito di innalzare i suoi muri, dirottando così le file di migranti a piedi verso Croazia e Slovenia – aveva avvertito: “Se non prendiamo decisioni concrete, credo che l’Europa inizierà a sgretolarsi”.

Com’è ovvio, la meta preferita sono i paesi del Nord Europa (Svezia, Norvegia e Germania, sostanzialmente); quindi tutti i paesi di transito hanno proceduto a velocizzare il passaggio sul proprio territorio, ognuno per conto proprio, scaricando le persone sul vicino prossimo. Indicativo, da questo punto di vista, l’atteggiamento del primo ministro ungherese di ultradestra, Viktor Orban, che ha presenziato al vertice qualificandosi come “un semplice osservatore”. Come se l’Ungheria non facesse parte della Ue.

Mentre si discuteva tra gli 11 paesi e la Commissione, la Polonia consegnava la vittoria elettorale al partito di Jaroslaw Kaczynski – xenofobo, razzista e integralista cattolico – ampliando dunque le resistenze a ogni anche timida “politica dell’accoglienza”.

Già alcune settimane fa i ventotto paesi dell’Unione avevano faticato molto a trovare uun compromesso sulla distribuzione dei 160.000 profughi sbarcati soprattutto in Italia e Grecia. Questo nuovo round ha visto resistenze aumentate, e neanche i “persuasivi” argomenti agitati dalla Germania hanno convinto più di tanto. Anzi, almeno due giornali tedeschi riferiscono che la questione migranti stia contrapponendo, nella Cdu, Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble.

In queste condizioni l’accordo raggiunto nella notte scarica sulla Grecia metà dei 100.000 profughi del “piano”. Naturalmente ci saranno “aiuti” ad Atene per organizzare campi, così come agli altri paesi balcanici che ospiteranno piccole quote della metà restante.

Ma tutto questo pacchetto ha una possibilità di tamponare la situazione solo se la Turchia farà davvero da filtro, come discusso tra Erdogan e Merkel nei giorni scorsi, trattenendo sul proprio territorio almeno un paio di milioni di profughi provenienti da Siria, Iraq, Afghanistan, Pakistan. Nessuno, nelle capitali europee, ci crede però troppo. Più che probabile, infatti, che Ankara usi questa massa di disperati come arma di pressione sulla Ue, a seconda dell’evoluzione della situazione sul fronte siriano e curdo.

 

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