Nel gennaio scorso la frazione parlamentare di “Russia giusta” aveva proposto di assegnare gratuitamente appezzamenti di un ettaro di terra ad alcune categorie “svantaggiate” (ex occupati in lavori usuranti o in zone dell’estremo nord, ex militari, ecc.) o a cittadini “meritori”. L’iniziativa, che a detta dei parlamentari si sarebbe dovuta estendere a tutta la Federazione, secondo altri doveva invece limitarsi alle aree dell’estremo oriente ed essere diretta al popolamento delle regioni più lontane della Federazione russa, in particolare di villaggi e borghi abbandonati. Una sorta, insomma, di “conquista dell’est” regolamentata; tanto più che la proposta prevedeva l’assegnazione dei terreni, appunto, in zone reiette e, in fondo, un ettaro di terra, in alcune aree della Siberia in cui la neve scompare a maggio e ricompare a settembre, può assicurare a malapena un magro autosostentamento. Nello specifico, il progetto finalizzava la concessione gratuita (che esclude l’alienazione) alla “costruzione di abitazioni private, aziende individuali di agricoltura sussidiaria, costruzione di dače o annessi agricoli” e varie forme di conduzione privata di attività agricole. Con spirito “a là” Stolipyn (il Ministro degli interni zarista patrocinatore della riforma agraria del 1906, che intendeva dar vita a una classe di medi proprietari contadini), l’autore del progetto sosteneva che, per tale via, si sarebbe “creata una classe media occupata, che non si interessa di politica e lavora per il bene della propria famiglia e dello stato”; sia fatta la volontà di dio, verrebbe da aggiungere.
Ogni entusiasmo veniva immediatamente freddato dal direttore dell’Associazione degli agricoltori Sergej Balaev che, molto prosaicamente, chiariva alle Izvestija non esserci più terra libera: “Tutti i terreni, non solo a Mosca, ma anche nelle regioni, sono stati acquisiti da imprese e privati, per rivenderli in grandi appezzamenti, non alla portata né di agricoltori, né di comuni cittadini. A partire dagli anni ’90, si sono liquidati i kolkhozy (le fattorie collettive), i terreni sono stati trasformati da coltivabili in edificabili, per le dače. La stessa terra è stata poi abbandonata, ma non può essere confiscata: per legge, per espropriare la terra incolta, è necessaria la presenza del proprietario”, il più delle volte introvabile.
Ad ogni modo, in una di quelle aree estremorientali, nella regione di Sakhalin (due passi ancora più verso est e ci si tuffa nell’oceano Pacifico) i primi 5 “fermery” hanno ricevuto il loro ettaro gratuito di terra. Ne dava notizia Interfax lo scorso 28 settembre, aggiungendo che i fortunati coltivatori potranno in tal modo allargare le superfici su cui già allevano i propri animali e se l’attività agricola vi sarà continuata per almeno 5 anni, i lotti passeranno in loro godimento perpetuo. La localizzazione degli appezzamenti concessi è quella della provincia di Tym, abitata da quindicimila persone disperse su una superficie pari alle province di Lucca, Firenze, Prato e Pistoia messe insieme.
Prima di ciò, nel marzo scorso, era entrata in vigore la riforma terriera, descritta da quasi tutti i media ufficiali come la più profonda degli ultimi 25 anni – sorvolando, ovviamente, sul particolare del disfacimento dell’agricoltura collettiva, uno dei primissimi passi della svolta eltsiniana. Il primo punto riguarda il passaggio della proprietà di molti terreni alle municipalità, che li potranno alienare a privati e persone giuridiche (che possono aggiungere nuovi appezzamenti a quelli già in loro possesso) a “prezzi molto più bassi di quelli di mercato” e che in pochi casi potranno rifiutarne la vendita. Stato e municipalità non possono in ogni caso espropriare i terreni a destinazione agricola.
Questa nuova riforma non fa che limare le punte più scoscese di ciò a cui l’intervento gorbačëviano aveva dato il via e, dopo, quello eltsiniano aveva fracassato con l’accetta. Dopo il 1992, scrive Sovetskaja Rossija, “in molti hanno cominciato a ricordare valori e concetti della vita di prima del 1917, Così che molti degli attuali fermery possono chiamarsi kulaki e i lavoratori salariati batraki, braccianti. Sui vocabolari, il kulak è definito contadino ricco, proprietario, che sfrutta braccianti e contadini poveri. Il batrak è il lavoratore agricolo salariato occupato nel latifondo o nell’azienda di un contadino ricco. Per ora non ci sono latifondisti?” si chiede Sovetskaja Rossija; “Appariranno presto”, conclude. A opporsi a un ritorno all’agricoltura collettiva, continua il giornale, saranno soprattutto i nuovi proprietari, grossi e medi, dei lotti di terreno, nell’euforia del “questo è tutto mio e per sempre!”: finché non saranno sopraffatti dalla concorrenza o dalle banche.
In effetti, già la legge del 1990 su “Imprese e attività imprenditoriale”, non riconosceva più kolkhozy e sovkhozy (le fattorie di stato), insieme ad altri tipi di attività cooperative, quali soggetti autonomi di diritto, cui era consentita la registrazione in fase di privatizzazione delle imprese.
Il sito web preiskurant.ru scrive che sotto il postulato di “ridare la terra ai contadini”, trasformando la grande agricoltura industriale – collettiva e statale – in piccolo-contadina, sin dai primissimi anni ’90 si sono avviate nuove forme di conduzione capitalistica dell’agricoltura, adducendo il pretesto che kolkhozy e sovkhozy non erano in grado di assicurare al paese una sufficiente produzione alimentare e, soprattutto, non potevano inserirsi nelle nuove condizioni di mercato. L’agricoltura collettiva cominciò così a essere soppiantata da strutture private, dalla completa libertà di mercato terriero, dalla fine dei sussidi all’agricoltura, secondo il programma messo a punto dalla Banca mondiale e pubblicato dapprima in USA e, solo successivamente, nella stessa Russia. I dati statistici, scrive preiskurant, mostravano però un altro quadro, che non parlava certo di deficit alimentare: in confronto al 1913 (ultimo anno di pace e di più abbondanti raccolti), nel 1988, si consumavano 66 kg di carne a testa contro i 29 di allora; 356 kg contro 154 di prodotti caseari; 275 uova contro 48; e via di questo passo, tanto che l’Urss occupava il 6-7° posto nel mondo per livello di consumo di prodotti alimentari, nonostante la popolazione aumentata di 1,75 volte (rispetto al 1913) e in condizioni climatico-colturali di 2,8 volte peggiori rispetto a USA o UE.
Forse anche per questo, a vent’anni dalla loro liquidazione, secondo un sondaggio condotto nel 2010 dall’ufficiale VTsIOM, non era mutata la percentuale di russi (31%) che continuavano a considerare i kolkhozy la forma più produttiva di conduzione agricola. Nello stesso lasso di tempo, era invece scesa dal 34 al 27% la percentuale di coloro che giudicavano valida la conduzione individuale, dal 32 al 20% quella dei sovkhozy; crollato dal 35 al 9% il consenso per la conduzione affittuaria. La coltivazione di prodotti a esclusivo uso familiare risultava interessante per il 56% degli intervistati nel 1990 e per il 15% venti anni dopo; il 13% crede nella validità dell’impresa agricola privata. E se è salita dal 16 al 28% la percentuale di chi desidererebbe acquistare una particella di terra per costruirci la propria abitazione, è altresì volato dal 1 al 24% il numero di chi non desidera ricevere alcun lotto di terreno.
Nel 1960 i kolkhozy occupavano il 56% dei terreni agricoli della sola RSFSR (la Repubblica socialista federativa sovietica russa); nel 1989, il 38%. In Urss, le imprese collettive detenevano il monopolio della produzione di cereali; nell’ultimo decennio di esistenza dell’Unione Sovietica, le imprese grandi e medie si ridussero quasi al livello del 1950 per produzione di carne e latte. Se nel 1940 kolkhozy e sovkhozy erano più o meno alla pari con la proprietà individuale di bestiame, nel 1980 ne detenevano 5 volte di più; ma poi le due percentuali tornarono ad avvicinarsi e nei primi anni duemila, le imprese grandi e medie – non più collettive – detenevano il 52% di bovini, il 54% di suini, il 65% di pollame e appena il 24% di ovini e caprini, concentrando ciononostante l’80% dei terreni.
Operando una media grossolana delle diverse e non univoche fonti, al 1990 erano rimasti in Urss circa 22mila kolkhozy, di cui circa 12.500 nella sola Russia, ridotti poi a meno di 2000 nel 2005.
Secondo altre fonti, nel 1989, considerato l’ultimo anno prima del crack definitivo, c’erano 12.900 sovkhozy e 12.500 kolkhozy, che occupavano rispettivamente 5,6 e 4 milioni di lavoratori, sui circa 39 milioni di abitanti delle campagne. In Ucraina, dei circa 8.400 kolkhozy presenti nel 1990, nel 2005 non ce n’era rimasto nemmeno uno. Con la “riforma” del 1990, kolkhozy e sovkhozy furono trasformati in società per azioni, società di persone, cooperative di produzione, etc. Già intorno al 2000, la maggior parte delle ex imprese collettive non ce la faceva a sostenere le nuove condizioni economiche: la loro produzione si era ridotta di due terzi, il bestiame diminuito di 3 volte, diceva nel 2008 Tatjana Nefedova, geografa dell’Accademia delle Scienze , ai microfoni di Ladim.org. Del numero totale, era statale meno del 10% delle imprese, mentre l’85% era privato, tenuto anche conto che la “proprietà”, passata teoricamente nelle mani individuali degli ex lavoratori delle fattorie collettive, era detenuta in realtà dai loro nuovi gestori-padroni. La “novità” dell’apparizione, dopo il 1990, di qualche centinaio di migliaia di fermer, cui si doveva il 6% circa della produzione, si rivelò presto anch’essa teorica, con il fallimento di molti di essi già pochi anni dopo e il relativo accaparramento dei loro appezzamenti da parte delle grosse imprese private; un fenomeno testimoniato dal restringersi del numero di aziende e contemporaneo incremento della superficie detenuta.
Una volta decretata la liquidazione dei kolkhozy da parte della Banca Mondiale, si procedeva molto sbrigativamente: si nominava un nuovo direttore che metteva in vendita tutto, dai raccolti, ai trattori, agli animali, senza peraltro che i lavoratori del kolkhoz potessero pretendere a un minimo diritto di prelazione; l’azienda non funzionava più ed era la bancarotta. Per lo più i lavoratori se ne andavano; i pochi che rimanevano, non erano più in grado di condurre la fattoria, mancando i mezzi, le attrezzature e i fondi, così che anche loro finivano sul lastrico. Durante la riforma agraria del 1996, scriveva nel 2014 G.V. Romanova sul sito km.ru, “12 milioni di contadini ricevettero in proprietà privata quote e parti di terra. Molti, purtroppo, non ne hanno mai vista. I confini degli appezzamenti in cui erano compresi quelle quote, non erano contrassegnati sulle mappe e non erano inclusi nel catasto dei terreni. Come risultato, i terreni di fattorie collettive e statali non sono andati in proprietà ai cittadini, ma sono stato assegnati al fondo distrettuale di ridistribuzione della terra e, ancora una volta, senza definire i confini di questi terreni, non si distinguono gli appezzamenti privati dal suolo pubblico”. Cioè, ancora una volta, i lavoratori dei kolkhozy sono rimasti a mani vuote e i terreni su cui lavoravano finiscono nelle mani di chi dispone dei mezzi per accaparrarseli.
Secondo geographyofrussia.com, la parte della Russia in cui maggiormente predomina la conduzione fermer, è quella meridionale europea, “sebbene anche la conduzione familiare sia forte, ma con superfici di terreno non così estese come quelle dei fermery. In tali aree “la polarizzazione dei fermery è particolarmente accentuata. La misura media degli appezzamenti di 140 ettari, significa che il 10-20% dei fermery utilizzano 500-1000 ha, mentre il restante 80-90% dà in affitto i propri lotti, oppure conduce un’economia oltremodo contenuta”.
In generale, sosteneva Nefedova sette anni fa, i fermery costituivano il 2% della popolazione contadina; negli ex kolkhozy e sovkozy (oggi “cooperative agricole”), in cui negli anni ’90 erano occupati ufficialmente già meno del 15% dei lavoratori – in media un kolkhoz occupava 312 lavoratori; un sovkhoz 420 – a metà degli anni 2000, il numero si era ulteriormente ridotto al 9-10%. Singolare era anche che, nonostante la forte riduzione di forze e mezzi di lavoro (300mila lavoratori in meno; 1.600mila trattori e 480mila mietitrebbia: diminuiti rispettivamente di 3 e di 4 volte), la terra da essi occupata, anche se non lavorata, era rimasta pressoché invariata. Secondo le stime ufficiali, i terreni arati erano diminuiti in Russia del 20% nel periodo tra il 1990 e il 2006: se nel 1990 la superficie coltivata era di 120 milioni di ettari, nel 2008 era di 77 milioni; il totale complessivo delle terre messe a coltura, tra i vari tipi di aziende – grandi imprese, fermery e conduzione ausiliaria – per tutta la Russia era di 78 milioni di ha nel 2014, contro i 114,6 del 1992, i 213 milioni del 1983 e i 217 del 1980. A fronte di solo il 27% di tutta la popolazione che viveva nelle campagne, su 142mila villaggi e borghi di campagna, in 34mila di essi vivevano meno di 10 persone e in 68mila da 10 a 200 persone. A ciò va aggiunto che in tutta la Russia, come ricordava ancora la Nefedova, solo il 14% delle terre gode dell’ottimale combinazione di caldo-umido che crea le condizioni più favorevoli all’agricoltura: Caucaso settentrionale, Kuban e buona parte della regione di Stavropol, segmenti della regione di Rostov, l’area delle terre nere (regioni di Kursk, Lipetsk, Belgorod, Voronež, Tambov) e le parti meridionali delle regioni di Tula, Rjazan e Orël. Senza dimenticare che, verso la fine degli anni 2008, gli investimenti nell’agricoltura non avevano raggiunto nemmeno 1/3 di quelli del 1990 e, di questi, appena il 10% erano statali.
Per la stragrande maggioranza, i più forti investimenti nella terra già una decina di anni fa venivano dall’industria. Nefedova ricordava come, già allora, Gazprom fosse di gran lunga il più forte proprietario fondiario russo, seguito da altri consorzi minerari o di arricchimento minerale, che facevano man bassa di imprese agricole e dei loro terreni.
E se i più grossi proprietari-investitori sono costituiti dai grandi complessi industriali, il cui sfruttamento dei terreni è più legato ad altre attività che non quelle agricole, ecco che trova la sua spiegazione il considerevole ruolo svolto oggi dalla “economia agricola familiare” o ausiliaria, soprattutto in determinati settori di produzione. Come affermava ancora la Nefedova – e come confermano statistiche più recenti – “hanno fatto la loro comparsa i fermery, sono rimasti in piedi i kolkhozy, ma oggi i principali produttori non sono né i fermery, né i kolkhozy, bensì le piccole attività individuali. In sostanza, assistiamo a un “rinculo” verso la piccola economia mercantile degli inizi del XX secolo”. Queste piccole produzioni individuali, secondo la Nefedova, possono essere distinte in: economia familiare o “appezzamenti casalinghi”, che nel 2008 si quantificavano in circa 16 milioni; a questi si aggiungono 20 milioni di orti e campi attigui alle dače, di proprietà generalmente di abitanti delle città. In totale, 36 milioni di appezzamenti: calcolato in 2,8 il numero medio di membri di una famiglia, si arriva a 100 milioni di russi che coltivavano direttamente per il proprio fabbisogno. Ancora pochissimi anni fa si poteva dunque assistere al fenomeno, per cui pochissimi correvano a impiantare la propria attività di fermer, preferendo di gran lunga continuare la pratica del periodo sovietico, della coltivazione del piccolo lotto individuale. Se ora dunque, con il kolkhoz in crisi, il contadino non riscuoteva più il suo salario, non si affrettava però comunque a uscire dalla fattoria collettiva e continuava a lavorarvi: da questa, come per il passato, riceveva in cambio foraggio per i propri animali, sementi a prezzi di vantaggio e uso gratuito del macchinario collettivo per il proprio appezzamento individuale, potendo poi vendere sul mercato carne e ortaggi.
Per fare un raffronto, secondo uno studio condotto da Osvaldo Sanguigni su fonti sovietiche e pubblicato nel 1984 su Nuova rivista internazionale, pare che all’epoca 8 milioni di persone lavorassero per metà tempo in aziende individuali e per l’altra metà in kolkhozy o sovkhozy; questo a fronte di una cifra ufficiale di 28 milioni di occupati, all’epoca, nelle varie branche dell’agricoltura.
Ancora all’inizio degli anni ’80, le famiglie occupate nei kolkhozy ricavavano il 25-30% del reddito dai propri appezzamenti individuali che, complessivamente, costituivano 11 milioni di ettari di terreni coltivati; allevavano 24,6 milioni di bovini (di cui 13,6 mln di mucche), 15,6 milioni di maiali, 28,2 mln di pecore, 5 mln di capre e 668mila cavalli.
Secondo l’ultimo censimento disponibile, quello del 2006 (il prossimo ci sarà nel 2016) c’erano in Russia circa 147.500 imprese agricole, tra piccole, medie e individuali, in cui erano occupati 553mila lavoratori, per una media aritmetica di 4 lavoratori per azienda. Ma il 53% di tali imprese (78.200) occupava in media poco più di un lavoratore (in totale, 108mila); 38.400 ne occupavano una media di 3 (132mila in totale). C’erano poi 204 aziende con una media di 76 occupati ciascuna; 66 con 120 lavoratori; 49 con 186 e 8 con una media di 320 operai. Accanto a queste, funzionavano circa 32.500 cosiddette “organizzazioni” agricole – in pratica, le aziende in cui erano stati trasformati kolkhozy e sovkhozy ancora esistenti al 1990 – con poco più di 2.600mila occupati; di questi, circa il 72% (1.870mila) lavoravano in organizzazioni che occupavano una media da 157 a 461 lavoratori ciascuna.
Nel 2014 il salario medio di un lavoratore occupato – la stima era di 4,54 milioni di lavoratori – in una grande impresa legata al settore agroalimentare era di 19.237 rubli per le aziende agricole; 27.945 per quelle alimentari e 23.936 per quelle della branca molitoria o comunque legata a lavorazioni granarie. Secondo il Rosstat, il Servizio federale di statistica, la media salariale generale per tutta la Russia era di 29.300 rubli, che dovrebbe tener conto delle forti differenze tra diversi settori industriali, tra industria e agricoltura, città e periferie regionali e, soprattutto, tra lavoratori e funzionari pubblici e privati.
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Il peso delle attività ausiliarie individuali si evidenzia oggi soprattutto in alcuni settori della produzione agricola. Il caso più lampante è quello delle patate, che nessun abitante di città ha mai rinunciato a coltivare nei famosi “6 sotok” (circa 600 mq) attigui alla propria dača. Secondo il Rosstat, nel 2014, l’80,2% dei 31,5 milioni di tonnellate di patate prodotte è venuto dalla cosiddetta “economia familiare”, contro il 12,2% delle grandi imprese e il 7,6% dei fermery; stessa cosa per gli ortaggi: rispettivamente il 69,2%, 16,8% e 14%; pressoché alla pari la produzione di latte: 47% e 46,7%, contro il 6,3% dei fermery. Tant’è che dei 55,3 milioni di ettari di terreni a coltura delle grandi imprese e dei 19,7 milioni dei fermery, appena 295mila (0,5%) nel primo caso e 287mila (1,5%) nel secondo sono dedicati a patate e cucurbitacee; a differenza degli appezzamenti di economia ausiliaria che, su un totale di 3,5 milioni di ha, ve ne destinano ben 2,4 milioni, cioè il 70,6% (ma erano 3,6 milioni gli ettari di terra destinati a patate nel 1995). Non eccessivamente discosti sono anche i dati relativi all’allevamento: nel 2014 il totale di bovini, tra tutte le categorie di imprese agricole, era di 19,3 milioni di capi, di cui 8,5 milioni di mucche; 19,57 milioni di suini; 24,6 milioni di ovini e caprini e 529 milioni di pollame. Di questi, 8,5 milioni (44,4%) di bovini, di cui 3,4 milioni (40,6%) di mucche, erano detenuti dalle grandi imprese e 8,67 milioni (44,6%), di cui 4 milioni (47%) di mucche, dall’economia ausiliaria; quest’ultima, allevava 11,6 milioni (46,7% del totale nazionale) di capi di ovini e caprini, contro i 4,3 milioni (17,8%) delle grandi imprese. Alle grandi imprese si dovevano 8,9 milioni di tonnellate (peso vivo) di pollame macellato (su un totale nazionale di 12,9 mln di tonnellate), contro i 3,5 milioni dell’economia ausiliaria e 0,45 mln dei fermery; ma se le grandi imprese hanno prodotto 14,4 milioni di tonnellate di latte, l’economia ausiliaria ne ha fornito 14,5 milioni e i fermery appena 1,9 milioni.
In un contributo pubblicato nel 2003 su raf.org.ru, il prof. Ghelij Šmelev scriveva che nel 1990 – nel 1999 l’indice della produzione agricola raggiungeva appena il 55% del 1990 – la quota di prodotti derivante da appezzamenti ausiliari e orti individuali rappresentava il 26% della produzione agricola complessiva e nel 1999 il 59,8%, rilevando che “tale aumento era dovuto sia alla crescita della produzione individuale, sia alla caduta produttiva nelle grandi aziende agricole”, cioè kolkhozy e sovkhozy.
Dal 1990 al 2006 la superficie lavorata dai cittadini è passata da 4 a 19 milioni di ha, andando quasi a eguagliare quella lavorata dai fermery. Ciononostante i maggiori utilizzatori di terreni rimangono le grandi e medie imprese, pur se la superficie da loro controllata è scesa da 210 a 142 milioni di ettari.
I dati statistici, scriveva Šmelev, indicano che “alcuni tipi di prodotti agricoli sono frutto prevalentemente, o quasi del tutto, delle grandi aziende, mentre altri dell’economia familiare. Ad esempio, quest’ultima produceva nel 1998 il 91% delle patate (ma, come abbiamo visto poco sopra, era l’80% nel 2014); l’80% degli ortaggi, l’86% di frutti, il 55% della carne, di cui il 70% di maiale, il 77% di pecora e circa il 90% di miele e praticamente tutto il latte di capra e la carne di coniglio. Era invece insignificante la quota di colture foraggiere e cerealicole dovuta all’economia individuale, concentrata sui terreni delle grandi aziende”.
Ancora a proposito delle patate, nel 1990 le grandi organizzazioni agricole ne produssero 10,5 milioni di tonnellate, contro i 20,4 mln dell’economia familiare e le 2mila tonnellate dei primi fermery, per un totale di 30,8 milioni di tonnellate. Nel 2000 le cifre erano rispettivamente: 2,2 milioni, 26,9 mln e 375mila tonnellate, per un totale di 29,4 milioni di tonnellate. Nel 2005 si ebbero 2,3 mln, 24,9 mln e 0,8 mln di tonnellate. Nel 2010: 2,2, 17,7 e 1,17 milioni. Nel 2012: 3,85, 23,3 e 2,27 mln di tonnellate. La produzione complessiva è stata di 32,7 milioni di tonnellate nel 2011, 29,5 nel 2012 e 30,2 nel 2013.
Il Rosstat riporta che, nel 2014, dei 4.225,6 miliardi di rubli di produzione agricola (2.155,7 da produzione seminativa e 2.069,9 dall’allevamento) il 48,6% si doveva alle grandi organizzazioni (ex kolkhozy e sovkhozy), il 10% alle imprese contadine e ben il 41,4% alle attività ausiliarie individuali. Sempre secondo fonti ufficiali, nel 2007, il prodotto lordo del settore agricolo, di 2.099,6 miliardi di rubli, era dato per il 48,75% dalle attività ausiliarie individuali, per il 43,76% dalle grandi organizzazioni e per il 7,49% dalle piccole imprese contadine. Piccole imprese che, secondo ut.magazine.ru, soprattutto negli ultimissimi tempi stanno vivendo una “crescita impetuosa”, con un giro d’affari balzato dai 23,6 miliardi di rubli del 2000 ai 422,7 del 2014.
Ad ogni modo, è un fatto che, secondo il Rosstat, nel 2014 si sono importate 1.465.000 tonnellate di carne fresca e congelata (bovina, suina, ovina e pollame) e 649mila tonnellate di pesce; 688mila tonnellate di patate e 846mila tonnellate di pomodori. Non a caso, si registra una caduta di 2,5 volte del numero di capi di grande bestiame rispetto al 1992, quando la cifra superava i 52 milioni: la media annua tra il 1981 e il 1984 era stata di 15,9 milioni di tonnellate di carne prodotta; 93,5 mln di tonnellate di latte e 72,7 miliardi di uova.
In conclusione, è forse ancora presto per azzardare conclusioni circa gli effetti delle sanzioni occidentali sulla produzione agricola russa così come ottenuta dalla conduzione dei fermery: se cioè l’embargo abbia costituito o meno un incentivo all’incremento produttivo autarchico, tanto più che le fonti non occidentali di approvvigionamento alimentare non si sono mai interrotte. Se in Russia, la liquidazione dei kolkhozy può aver avuto effetti meno appariscenti, per la popolazione, “grazie” alle disponibilità valutarie per l’importazione di prodotti stranieri, non è stato così per altre repubbliche dell’ex Urss, in cui la fine della conduzione collettiva si è rivelata disastrosa. Nel luglio scorso, l’agenzia Sputniknews riportava alcuni dati della FAO, secondo cui l’eliminazione dei kolkhozy ha completamente distrutto l’agricoltura del Kyrghyztan. Secondo il rapporto, in epoca sovietica, il settore zootecnico riceveva significative risorse finanziarie, scientifiche, tecniche e umane. Più di nove milioni di ettari di pascoli, cioè l’88% dei terreni agricoli del Paese, mantenuti in buone condizioni. Disfatta l’Urss, l’intera proprietà kolkhoziana è stata distribuita tra i contadini; non disponendo però questi di risorse finanziarie per gli investimenti, l’intera infrastruttura è rimasta inutilizzata e si è ben presto rovinata. Non si cade lontani dal vero scommettendo sul “pronto intervento” di “investitori privati” (d’altronde auspicati dalla stessa FAO) che si incaricheranno di rimettere le cose a posto.
Così che ci si avvicina al nocciolo della questione, a quello che Socialcompas (Bussola sociale) definisce “La svendita della Russia”. “A fronte del clamore suscitato dai 100mila ettari di terra della regione dell’Oltrebajkal (confinante con Cina e Mongolia) dati in affitto a una compagnia cinese” scrive Socialcompas, “tutti si sono dimenticati dei milioni di ettari di terreni agricoli già in possesso o in affitto di compagnie straniere”. Secondo Forbes, nel 2013 nove compagnie straniere controllavano un complesso di circa 2 milioni di ettari (si va dagli “appena” 50mila ha, ad esempio, della mineraria anglo-svizzera Glencore, agli oltre 600mila della agro-industriale kazakha Ivolga-holding), di cui ¼ in proprietà; questo, senza considerare i conti russi offshore. Secondo il Centro Ikar, la cifra è di 2,7 mln di ha; secondo la società di consulenza BEFL, si arriva a 3 mln di ha, corrispondenti a circa il 5% dei terreni coltivabili, mentre le agroholding russe controllano dai 5,5 ai 6 mln di ha. La situazione non cambia in Ucraina, dove, ad esempio, accanto ai magnati locali, il solo fondo USA NCH Capital detiene 450mila ha, sui 2,2 milioni appartenenti a compagnie straniere. Tra queste, compagnie saudite, francesi, texane e la danese Trigon Agri, controllata a sua volta da capitali finlandesi, inglesi, svedesi belghe e statunitensi. La NCH, presente in Ucraina dal 1993, negli ultimi i dieci anni, ha sistematicamente affittato piccoli appezzamenti (da 2 a 6 ha) in giro per l’Ucraina, combinandoli quindi in grandi fattorie. Tali contratti di locazione, dopo l’abolizione governativa della moratoria sulla vendita di terreni (prevista per il 1 gennaio 2016), danno ora alla società il diritto di acquistare le particelle affittate.
Insomma, se la cancellazione della conduzione collettiva dell’agricoltura era il primo e necessario passo sulla strada dettata alla Russia eltsiniana dalle istituzioni finanziarie internazionali, per sancirne la “normalizzazione” capitalistica, la resurrezione della proprietà privata sulla terra riportava definitivamente il paese alle condizioni in cui, se non più il “pomeščik-dvorjanin”, il nobile proprietario fondiario, sorpassato dalla storia, ma il suo diretto discendente, il latifondista grosso capitalista, il kulak, torna a farla da padrone.
Non a caso, “risolvere” la questione agraria costituiva una delle maggiori priorità della “nuova” Russia uscita dal disfacimento a tavolino dell’Unione Sovietica. La questione della proprietà sulla terra aveva costituito, novantotto anni fa, uno dei primi passi del potere sovietico. Immediatamente dopo il Decreto sulla pace, il primo in assoluto, adottato il giorno stesso della Rivoluzione d’ottobre, il secondo era stato il Decreto sulla terra, approvato nella notte successiva. Quel decreto sanciva l’immediata abolizione di ogni proprietà privata sulla terra e fu seguito, appena tre mesi più tardi, dalla legge sulla nazionalizzazione della terra. Questa, come illustrava Lenin nella sua polemica con Kautsky, costituiva una misura rivoluzionaria democratico-borghese – di un “capitalismo ideale” – che rispondeva alle richieste dell’enorme massa di piccoli contadini, sull’utilizzo egualitario della terra e rappresentava un primo passo per condurre completamente a termine la rivoluzione democratico-borghese, prima di passare alla rivoluzione socialista nelle campagne, poggiando sulle masse proletarie e semiproletarie agricole.
Oggi, la concentrazione di enormi estensioni di terra nelle mani di grossi gruppi industriali, russi e stranieri, e il tentativo di stimolare la formazione di una classe di piccoli e piccolissimi agricoltori che, inevitabilmente, si divideranno in una ristretta cerchia di grandi proprietari e in una massa di piccoli coltivatori-debitori, riallinea dunque la Russia alle esigenze del capitale interno e la rende disponibile allo sfruttamento delle sue risorse da parte dei gruppi transnazionali, agrari e non.
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