Se la crisi siriana ha spinto in secondo piano, sulla maggior parte dei media, la questione ucraina, non per questo la tragedia del Donbass ha cessato di consumarsi, pur senza i picchi drammatici raggiunti fino all’estate scorsa.
Un po’ di respiro è venuto alla martoriata popolazione civile del sudest ucraino anche dalla crisi economica e politica che avvolge il regime di Kiev, scosso da un deficit energetico ormai oltre il livello massimo, da proteste sociali sempre più frequenti, da continue minacce di una nuova “majdan” da parte dei gruppi nazionalisti e neonazisti. Tanto che il presidente Porošenko non ha trovato nulla di meglio che invocare l’assistenza divina e il primo ministro Jatsenjuk rivolgere appelli – a quanto sembra sempre più inascoltati – a quell’Unione Europea alle prese con problemi propri.
Così, dopo l’assurdo “esperimento” di imporre il blocco energetico alla Crimea – cui pare non sia stata estranea la Turchia – le bande nazionaliste, al momento “in esubero” sul fronte della guerra guerreggiata, si radunano in “attesa dell’ordine di tagliare l’energia elettrica al Donbass”. Ma l’esercito, da parte sua, non ha mai smesso di colpire le città delle Repubbliche popolari. Ancora il 28 novembre scorso diversi quartieri di Donetsk sono stati bersagliati dai mortai da 82 e 120 mm e dai lanciagranate di Kiev. E la ricognizione della DNR continua a segnalare concentramenti di mezzi corazzati e artiglierie pesanti. Il vice comandante del Ministero della difesa di Donetsk, Eduard Basurin, ha riferito ieri che durante la scorsa settimana, in violazione degli accordi di Minsk, l’esercito ucraino ha concentrato lungo la linea del fronte 111 pezzi di artiglieria e 166 carri armati, oltre a mezzi blindati, artiglieria semovente, batterie di razzi “Grad” e “Uragan”, truppe e reparti formati dai neonazisti di “Pravyj sektor”; le aree particolarmente interessate sono quelle di Gorlovka, Mariupol e Donetsk.
Anche il Ministero della difesa della Repubblica popolare di Lugansk denuncia la dislocazione di uomini e mezzi – carri, batterie lanciarazzi, apparecchi senza pilota – lungo la linea di separazione, il minamento del terreno a ridosso dei centri abitati più vicini al fronte e l’intensificarsi delle attività di gruppi di sabotatori ucraini sul proprio territorio. Dal 18 novembre, nella città di Stanitsa Luganska, poche decine di chilometri a nordest di Lugansk, in territorio controllato da Kiev, si sono acquartierati reparti del battaglione neonazista “Azov”, lo stesso che, secondo il suo capo Andrej Biletskij, ha intenzione di unirsi alla “coalizione occidentale” in Siria contro i russi.
E a poco valgono le rivelazioni del Washington Post, riportate dall’agenzia Novorossija, secondo cui Kiev avrebbe ricevuto dagli USA mezzi bellici (“non letali” come jeep, giubbetti antiproiettile, visori notturni, ecc.) inservibili per 260 milioni di $: sotto i colpi ucraini gli edifici civili e industriali del Donbass continuano ugualmente a bruciare e gli abitanti, come da tempo ormai, sono costretti a vivere nelle cantine. Ancora ieri notte, mentre Je-suis-Charlie-Porošenko, da Parigi, intendeva dare lezioni a Mosca sul rischio ambientale nel Donbass, i mortai ucraini sono tornati a colpire una fabbrica chimica nel rione Kujbyševskij di Donetsk, già bersagliata con razzi “Smerč” in giugno e missili “Točka-U” a febbraio. I rischi per i civili del Donbass, a parere di Porošenko, non debbono evidentemente preoccupare le anime belle mondiali.
Ma in questa situazione, in quello che nei giorni scorsi Vladimir Putin, conversando col presidente francese Hollande, ha definito un “non Stato”, non in grado di controllare ciò che avviene sul proprio territorio, accade anche che gruppi armati si diano a sparare sia sulle milizie che sull’esercito ucraino. Secondo miliziani della LNR, nell’area di Stanitsa Luganska sono in azione gruppi di sabotatori (si suppone, mercenari anche stranieri) che, pur di riaccendere le micce del conflitto, aprono il fuoco su entrambe le posizioni, per provocarne la reazione. Questo nel quadro di una situazione materiale e psicologica delle truppe regolari ucraine che non cessa di peggiorare. Non di rado si registrano scontri a fuoco fra truppe e battaglioni neonazisti e questi ultimi vengono sempre più spesso chiamati a rimpiazzare i reparti dell’esercito.
E’ così che le-peut-être-president-Porošenko alza le mani al cielo e invoca l’aiuto divino. Lo ha fatto pochi giorni fa quando, dopo le assicurazioni governative italiane sull’aiuto contro “l’aggressione russa”, è riuscito a ottenere udienza in Vaticano e, pare, a strappare un mezzo impegno papale a una visita in Ucraina. Ma, come sempre più spesso gli accade, Porošenko è riuscito anche a far storcere il naso al suo interlocutore, implorando la beatificazione, in occasione della eventuale visita, del metropolita Andrej Šeptitskij, capo della chiesa greco-cattolica (uniate) in Ucraina occidentale dal 1900 al 1944.
La canonizzazione era già stata chiesta dall’allora presidente Leonid Kučma, in occasione dell’unica visita a Kiev di un papa cattolico, nel 2001. Ma era il papa sbagliato: Wojtyła era polacco e, pur nella sua isteria anticomunista, non poteva concedere la beatificazione di colui che, dopo aver inviato le proprie congratulazioni al führer, nel 1941, per la conquista di Kiev, aveva poi benedetto, nel 1943, le bande filonaziste UPA-OUN e i volontari ucraini del battaglione SS “Nachtigall” che andavano a massacrare più di ottomila polacchi, civili e preti, della Volinja, nella regione di L’vov.
Se qualcuno, in occidente, nutrisse ancora qualche onirico dubbio sui golpisti di majdan e sulla loro manovalanza neonazista, ora che Kiev implora la santificazione di “un combattente per l’indipendenza dell’Ucraina” quale Andrej Šeptitskij, dopo aver innalzato a eroi nazionali nazisti quali Stepan Bandera e Roman Šukhevič, allora farebbe bene a svegliarsi.
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