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Joe Biden a Kiev per controllare gli affari del governo ucraino

Si è conclusa la due-giorni ucraina del vice presidente USA Joe Biden. Lunedì sera, i maggiori siti ucraini riportavano le parole del politologo Pëtr Oleščuk, secondo cui Biden era arrivato a Kiev “non in qualità di revisore”. Immediatamente, data anche la scenografia ucraina, il pensiero è andato al gogoliano “Revisor”, non foss’altro perché, alle spalle dell’alto ospite di rappresentanza, è giunta a Kiev anche la ben più pragmatica assistente del Dipartimento di stato per l’Europa e l’Eurasia, Victoria “fuck UE” Nuland, autentica coordinatrice-supervisore degli affari ucraini, da Euromajdan in poi.
Ufficialmente, Biden è andato ad assicurarsi che l’ulteriore prestito statunitense di 190 milioni di $ – che porta a 760 milioni il credito USA a Kiev a partire dal golpe del febbraio 2014, senza contare i 300 milioni in armamento “non letale” previsti da Obama nel bilancio federale 2016 – non finisca ancora una volta a gonfiare le tasche di alcuni magnati legati alla junta. Biden ha infatti sentenziato che la priorità in Ucraina rimane la lotta alla corruzione, conferendo autorità atlantica a quanto va ripetendo da mesi il più fedele yankee ucraino (non più georgiano, da quando Tbilisi gli ha tolto la cittadinanza) Mikhail Saakašvili, curatore dei terminali petroliferi (!) del porto di Odessa e vigile fustigatore degli oligarchi Igor Kolomojskij e Rinat Akhmetov, del premier Arsenij Jatsenjuk e di tutti i magnati ammanigliati, a detta dell’ex presidente della Georgia, in un intreccio corruttivo da 5 miliardi di $ l’anno.
Dopo gli incontri di lunedì con Porošenko e Jatsenjuk, ieri Biden ha parlato alla Rada e, dato che i giornalisti non sono stati ammessi in aula, il sito vesti-ukr.com si è limitato a commentare che il vice presidente USA non ha fatto altro che “dare i compiti a casa a Petro  Porošenko”: sicuramente in lingua inglese. Di fronte alla Rada suprema ucraina, l’unica bandiera a sventolare era ieri quella a stelle e strisce e gli addetti alla sicurezza, come riportavano vari deputati su feisbuc, salutavano con “good morning”!
Vero è che da Kiev Biden non ha perso l’occasione per accusare Mosca di non rispettare gli accordi di Minsk sul Donbass. Se la questione non fosse così tremendamente tragica, se l’attacco portato da Kiev con esercito e battaglioni neonazisti non avesse falcidiato persone (oltre novemila morti) e strutture del Donbass, verrebbe da dire che a Washington parlano di milizie popolari e truppe di Kiev, avendo in mente quel personaggio di Woody Allen che si allenava a colpire col naso i pugni dell’avversario: il quesito su “chi attacca chi” e “chi viola e chi rispetta cosa” si ingarbuglia sulle onde dell’Atlantico. Domenica sera, mentre l’aereo del numero due statunitense atterrava a Kiev, l’esercito ucraino tartassava con mortai da 120 mm, cannoni e lanciagranate alcuni villaggi attorno Gorlovka, quasi a chiarire a Joe Biden i termini della faccenda. Lunedì, nelle stesse ore in cui Joe proclamava la sua verità sulle colpe di Mosca, le truppe ucraine occupavano terreno lungo la striscia di territorio neutrale che fa da cuscinetto tra le forze di Kiev e le milizie popolari della DNR e, nel corso della cosiddetta “avanzata passiva”, si impadronivano dei villaggi di Piščevik, Pavlopol, Ĝnutovo, Širokino e Žovanka, cacciando gli abitanti dalle loro abitazioni. Ma “Mosca non rispetta gli impegni”! Nel villaggio Pionerskoe, nella provincia di Stanitsa-Luganska della LNR, una donna di 70 anni veniva freddata da un cecchino ucraino alle 15 di lunedì: il colpo faceva eco alla stretta di mano mattutina tra Biden e Porošenko. Alle 19 il villaggio di Spartak, nell’area suburbana di Donetsk, finiva sotto i tiri dei mortai ucraini e una casa andava completamente a fuoco, illuminando così il caloroso abbraccio serale tra Biden e Jatsenjuk, che in mattinata si era scambiato un affettuoso bacio col Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker a Bruxelles. Ma “l’aggressione russa” deve cessare, ripeteva cocciutamente Joe e sono apparse dunque poco più che da copione le sue parole alla Rada, per cui “anche l’Ucraina deve osservare la propria parte degli accordi di Minsk”, pronunciate mentre Kiev rifiutava di consegnare ai rappresentanti della DNR l’elenco dei nomi dei miliziani prigionieri per procedere alla scambio secondo la formula “tutti per tutti”. Più consono alla parte il suo appello agli abitanti del Donbass a rifiutare di vivere “sotto separatisti e delinquenti”: meglio prendere a nasate i pugni ferrati ucraini!
Il sito cont.ws scriveva ieri ironicamente che se Joe Biden è arrivato a Kiev per dimostrare che gli yankee non si sono dimenticati dell’Ucraina, significa che “non si sono dimenticati di quanti soldi hanno speso sull’Ucraina”, la “usano per risolvere alcuni loro piccoli problemi”, ma rifiutano di farsene garanti. Il portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov ha detto che se Kiev, come ventilato dal Ministro delle finanze ucraino, la statunitense Natalja-Dipartimento-di-stato-Jaresko, non salderà il debito di 3 miliardi di $ verso Mosca entro questo mese, va incontro a sicuro default, dopo che USA e UE confermano di non esser disposti a fare da garanti per un suo frazionamento a 1 miliardo l’anno fino al 2018 come proposto da Putin. E in Ucraina, scrive l’analista di cont.ws, ci sono persone “che credono davvero che l’America sia nostra amica. Toglieranno di mezzo alcuni politici, ne nomineranno altri e così la nostra vita migliorerà. Alcuni ucraini credono davvero che Biden non sappia che Jatsenjuk e Jaresko derubano il paese. E’ già la sua terza visita in un anno e sappiamo che da queste visite la vita non è migliorata, è solo peggiorata”. Qualcosa cambierà: è probabile che “i latrati di Saakašvili contro la corruzione di Jatsenjuk” annuncino le decisioni del padrone. Pare che Porošenko abbia per ora interesse a mantenere Jatsenjuk al suo posto; ma per ogni evenienza ha già pronti un paio di nomi. E altri due nomi sono proprio Jaresko e Saakašvili, anche se contro l’ex georgiano è schierata tutta la Rada. Si parla addirittura dell’idea di Porošenko di mollare la coalizione con Fronte popolare di Jatsenjuk e allearsi con il Blocco di opposizione, affidando il governo all’ex capo di gabinetto del deposto presidente Viktor Janukovič (che dichiara di voler “rientrare in politica”), Sergej Levočkin.
Di certo, scrive cont.ws, c’è solo che “dopo le visite dei nostri amici d’oltre oceano, di solito ricomincia la guerra”. Ma per la gente semplice continua lo stillicidio dei salari insufficienti a comprare il minimo necessario, “il terrorismo del regime, il crac delle euroillusioni, l’incapacità di Jatsenjuk, le sbornie di Porošenko, il servilismo da schiavi verso i padroni americani, l’aggravamento dei problemi economici ed energetici, il banditismo dei “patrioti”, già passati dal racket al brigantaggio, il rapido avvicinarsi del momento in cui il regime e i suoi lacchè dovranno saldare il conto”.
Le faide interne al regime, più o meno aperte, non sono mai cessate. Ora sta crescendo di intensità la sfida lanciata alla junta da Semën Semënčenko e dai neonazisti del suo battaglione “Azov”, che continuano a occupare il municipio di Krivoj Rog tentando un proprio golpe privato a misura cittadina, modello in scala dell’attuale euro-Ucraina in dissoluzione. Non più infatti il solo Donbass, scrive il portale Anna news, ma almeno altre tre regioni chiedono autonomia da Kiev. In quella di Dnepropetrovsk, alle amministrative di ottobre metà dei seggi sono andati al Blocco di opposizione, che si pronuncia per l’autonomia dal centro e l’attribuzione dello status di regione economica speciale; stessa cosa nella regione di Kharkov, per non parlare degli Oltrecarpazi, abitati da moltissime persone di origine russa, che non si considerano affatto ucraini. E al centro, secondo l’agenzia DAN di Donetsk, la junta tenta di rinviare una nuova majdan, allontanando dalla capitale e inviando al fronte i reparti più radicali dei battaglioni: solo nell’ultima settimana, un migliaio di uomini di Pravyj sektor hanno accompagnato al fronte quasi 500 pezzi di artiglieria. Il direttore dell’Istituto per la politica ucraina, Ruslan Bortnik, dichiara alla Tass che le “probabilità di una esplosione sociale tra febbraio e maggio 2016, quando gli introiti delle persone cadranno ulteriormente e i prezzi saliranno, sono di oltre il 60%”. E’ dello stesso parere il politologo ucraino Kirill Molčanov, secondo cui la miccia potrebbe essere accesa non solo dai problemi sociali, ma da qualche provocazione dei gruppi neonazisti e radicali, o per la sollevazione contro il centro di gruppi oligarchici e finanziari locali. Secondo il leader del movimento “Scelta ucraina”, Viktor Medvedčuk, “gli ucraini sono minacciati non già più dalla povertà, ma da una vera e propria indigenza e la loro lotta per la sopravvivenza diverrà ancor più disperata”. Oko-planet scrive che Biden è venuto semplicemente a “sanzionare la disintegrazione dell’Ucraina”.
In questa situazione, scrive ancora la Tass, gli USA si mostrano indifferenti ai problemi energetici ucraini e guardano solo al proprio tornaconto economico, tanto da rifiutare di discutere anche del recesso unilaterale della californiana Chevron dai propri impegni per le esplorazioni sui giacimenti di gas di scisto nella regione nordoccidentale di Ivano-Frank. Gli Usa hanno interesse a che l’Ucraina importi gas dai terminali di gas liquido in Polonia e Lituania. Il che non fa che rendere sempre più profonda la crisi del paese e affamare con tariffe energetiche lunari la maggioranza della popolazione ucraina.
Ma, per Joe, l’essenziale è intimare a Mosca di rispettare gli accordi di Minsk.

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