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Vietnam e Taiwan si armano contro la Cina, grazie agli Usa

Hanoi prosegue il rafforzamento del suo apparato militare in funzione anti-cinese. Una reazione alla crescente competizione con il vicino sul Mar cinese meridionale ricco di risorse ittiche e energetiche che anche Hanoi reclama, ma anche risultato dell’avvicinamento strategico in corso agli Usa e i suoi associati regionali. Pesa infine l’approssimarsi del Comitato centrale del Partito comunista previsto per il prossimo febbraio, che accentua il suo nazionalismo per recuperare stabilità interna. 
Indicata con intensità crescente la volontà di contrastare la Cina sul piano militare, dopo anni di relativa quiescenza seguita a brevi ma duri conflitti: scontri navali nel 1974, un conflitto terrestre tra il 1979 e il 1980, oltre al nuovo confronto marittimo nel 1988 che portò alla perdita delle isole Pescadores al largo delle sue coste. Le forze armate vietnamite hanno un quinto degli effettivi di quelle cinesi e un quarto dei suoi carri armati, aerei e navi, ma cinque milioni di riservisti (il doppio di quelli cinesi) e una preparazione alla difesa territoriale maggiore. Sia il governo di Hanoi sia gli esperti internazionali segnalano l’accelerazione nel riarmo vietnamita con l’intento di creare un deterrente efficace contro il vicino settentrionale se le tensioni marittime dovessero intensificarsi, ma anche di poterlo contrastare su più fronti in caso di attacco. Non si tratterebbe più di routine. L’acquisto di sistemi elettronici di avvistamento e controllo israeliani, l’acquisto di missili russi, l’ospitalità data alla flotta Usa nei suoi porti coincidono con il dispiegamento “in acque strategiche” del primo dei sei sottomarini russi di recente acquisizione e lo stato di allerta ormai permanente per la 308ma divisione, forza d’ élite che storicamente ha il compito di difendere la capitale Hanoi da un’invasione dal Nord chiariscono la serietà dell’impegno del governo. Che parla di “preparazione elevata per il combattimento” in vista di “una nuova situazione”. Che questa possa essere un atto di guerra in mare oppure una provocazione alla frontiera o disordini interni, magari in concomitanza con la riunione del Comitato centrale del partito unico, rientra nelle possibilità. La volontà di raccogliere attorno alla leadership e alle forze armate solidarietà e simpatia è comunque un obiettivo immediato. 
Il ministero degli Esteri cinesi ha intanto convocato l’incaricato d’Affari dell’ambasciata statunitense per protestare contro la decisione dell’amministrazione Obama di autorizzare la vendita di armamenti a Taiwan per il valore di 1,83 miliardi di dollari. Minacciate anche sanzioni contro le aziende che parteciperanno all’iniziativa. Come rilanciato dall’agenzia d’informazione ufficiale Xinhua, il vice-ministro degli Esteri Zheng Zeguang ha ribadito al diplomatico statunitense che “Taiwan è parte inalienabile del territorio cinese” e che la vendita di armi a quella che viene considerata una provincia ribelle da ricongiungere alla madrepatria anche con la forza se dovesse dichiarare l’indipendenza, non solo andrebbe contro il diritto e i rapporti internazionali, ma minaccerebbe “pesantemente” la sicurezza e la sovranità nazionale della Repubblica popolare cinese. A sollevare le ire di Pechino, la decisione presa ieri (nella notte italiana) dal Dipartimento di stato Usa di informare il Congresso della volontà di consentire la vendita di due fregate della classe Perry a Taiwan, parte di un accordo già segnalato da tempo. Se il Congresso non solleverà abiezioni entro 30 giorni, potrà concretizzarsi la vendita che, oltre alle navi, includerebbe missili anticarro, veicoli anfibi d’assalto, sistemi elettronici di puntamento, missili terra-aria Stinger. Una transazione che comandi Usa segnalano in linea con l’impegno di fornire a Taiwan armamenti sufficienti per consentire una efficace difesa all’alleato, senza che questo influisca sulla politica favorevole a una Cina unificata ma in modo pacifico e concordato. Da tempo crescono i timori a Taipei per la possibilità di contrastare efficacemente un’invasione dell’isola dal continente, dove Pechino ha solo nel 2015 investito ufficialmente 141 miliardi di dollari nel bilancio militare.

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