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Putin minaccia la Turchia. Che si riavvicina a Israele sacrificando Hamas

«Pensavano che saremmo corsi via? La Russia non è un Paese simile. Ora i turchi provino a entrare nello spazio aereo siriano». E ancora: «I turchi hanno voluto leccare gli americani in un certo posto».
Non usa certo un linguaggio diplomatico Vladimir Putin per attaccare il governo di Ankara e colpirlo nel vivo del sentimento nazionalista che gli islamisti al potere hanno resuscitato ed estremizzato per ampliare la propria base di consenso a settori della popolazione non necessariamente osservanti. Concetto ribadito quando attacca l’amministrazione turca per un processo di islamizzazione del paese che «che farebbe rivoltare Ataturk nella tomba».
Il riferimento del capo del Cremlino è ovviamente, ancora, al caccia russo abbattuto dai turchi sui cieli siriani che ha portato alle stelle la tensione tra i due paesi in una escalation di mosse e contromosse che non accenna per ora a rientrare, e che potrebbe sfociare nella chiusura dei rubinetti del gas (da parte di Mosca) o nella chiusura del permesso di transito nello Stretto dei Dardanelli per le imbarcazioni russe (da parte di Ankara che ne ha già bloccate 27 dall’inizio del contenzioso). «Forse hanno voluto fare un favore agli americani, dimostrarsi alleati affidabili» insiste Putin, che in realtà sa bene che la maggior parte delle mosse della Turchia in Medio Oriente – tra le quali l’inasprimento nei confronti della Russia – non solo non sono state concordate con Washington, ma al contrario rappresentano una provocazione anche nei confronti dei paesi della Nato di cui pure Ankara rappresenta un imprescindibile bastione ad Oriente. Washington con Mosca ci è dovuta scendere a patti, così come con l’Iran: sulla partecipazione di Assad almeno alla prima fase del processo di transizione in Siria che le potenze grandi e piccole stanno cucinando a Vienna; sul contrasto allo Stato Islamico (priorità per Mosca, necessità momentanea e poco convinta per Washington); sul varo alle Nazioni Unite di una risoluzione che permetta di perseguire enti o imprese che facciano affari con Daesh, un modo per indebolire il Califfato ma anche chi lo sostiene. 
Che Washington sia costretta a venire a patti con l’orso russo è la conseguenza di una debolezza crescente dell’amministrazione statunitense nell’area, oltre che di una strategia quanto mai ondivaga di Obama e dei suoi collaboratori. Oltre che, naturalmente, delle contromosse russe e dell’ormai evidente e conclamata possibilità di rovesciare il governo siriano per la semplice via militare. Addirittura, dopo averlo colpito massicciamente, ora Mosca ricorda in continuazione che il suo esercito sostiene dal cielo e con rifornimenti di armi alcuni settori dell’Esercito Siriano Libero, oltre che le unità militari formate dai curdi delle Ypg e da alcune brigate arabe inquadrate nelle Forze Democratiche Siriane. Quelle che Washington sperava diventassero le sue ‘truppe di terra’ in Siria di fatto subiscono una influenza sempre maggiore da parte dei generali di Putin.
Molti dei files aperti tra gli Stati Uniti e la Russia (tra i quali la contrapposizione totale persiste su altri fronti, come ad esempio quello ucraino) rappresentano un oggettivo elemento di contrasto per la Turchia e per le Petromonarchie che invece insistono per la cacciata di Assad e l’imposizione di un regime sunnita a loro più congeniale o per la continuazione delle sanzioni contro l’Iran. Per non parlare del sostegno russo e americano ai curdi in Siria, considerato un affronto inaccettabile da un regime turco che ha mandato le sue truppe a Mosul proprio per realizzare una tenaglia che, approfittando della complicità dei rinnegati di Erbil, stringa il Rojava in una micidiale tenaglia e isoli le organizzazioni popolari curde sottoposte in Turchia a una guerra totale. Una mossa che non è piaciuta neanche ai britannici che, per bocca del ministro degli Esteri di Londra Philip Hammond, hanno chiesto ieri a Washington di insistere con Erdogan e Davutoglu affinché la Turchia ritiri al più presto le truppe inviate ad occupare la base irachena di Bashiqa.
Non è un caso che Putin, tenendo la tradizionale conferenza stampa di fine anno al Word Trade Center davanti a 1500 giornalisti, ad un certo punto affermi esattamente il contrario di quanto detto poco prima a proposito della – diciamo così – condiscendenza turca nei confronti di Washington. Dopo aver citato un possibile scambio «Forse c’erano accordi ad un certo livello, del tipo ‘abbattiamo un aereo russo e voi chiudete gli occhi’, in cambio di un ‘noi entriamo in Iraq e ne occupiamo qualche zona’» – il capo del Cremlino sposta infatti il mirino sugli Stati Uniti e sui contrasti sempre più significativi con Turchia e petromonarchie che nei giorni scorsi hanno lanciato una propria coalizione militare smarcandosi anche simbolicamente dalle tradizionale leadership statunitense nell’area: «Uff, un’altra coalizione? Noi speriamo che non sia anti-russa. Ma non capisco bene a cosa serva, visto che ce n’è già una a guida Usa. Forse hanno contraddizioni interne».
Poi, rispondendo in maniera astiosa alla domanda di un giornalista turco, Putin sentenzia: “Non vedo nessuna possibilità di migliorare le relazioni con Ankara, forse dovremo ricorrere ad altre sanzioni”.
Sul fronte avverso la Turchia, in cerca di spazio vitale e nel tentativo di rompere un isolamento che si sta facendo asfissiante su vari fronti, decide di riavvicinarsi ad Israele, importante alleato di Ankara nella prima fase del potere erdoganiano, prima che il tentativo da parte di Erdogan di accreditarsi come guida della Fratellanza Musulmana in Medio Oriente e in Nord Africa rompesse l’idillio. 
Secondo fonti di stampa israeliane e turche, l’inviato del premier Benyamin Netanyahu per i contatti con la Turchia, Joseph Ciechanover, e il consigliere della sicurezza nazionale di Tel Aviv – e prossimo capo del Mossad – Yossi Coen hanno incontrato mercoledì scorso a Zurigo il sottosegretario agli esteri di Ankara raggiungendo una intesa a cinque anni dalla strage provocata sulla nave turca Mavi Marmara che tentava di portare aiuti alle organizzazioni islamiche di Gaza violando il blocco israeliano.
L’intesa tra le parti, secondo i media, si basa su cinque punti: il primo riguarda il pagamento da parte di Israele alla Turchia di 20 milioni di dollari come compensazione da trasferire, tramite un apposito fondo, alle famiglie dei cittadini turchi uccisi o feriti durante l’assalto della marina del cosiddetto “stato ebraico” alla Mavi Marmara. Il secondo punto prevede la ripresa di normali relazioni e il ritorno dei rispettivi ambasciatori nei due paesi. Il Parlamento turco – afferma il terzo punto – approverà una legge che annulla ogni reclamo legale presente, e futuro, contro ufficiali e soldati israeliani legati ai fatti della Mavi Marmara. L’intesa prevede al quarto punto l’espulsione da parte della Turchia di Saleh al-Aruri, membro di rango dell’ala militare di Hamas di base a Istanbul da dove dirigerebbe dei combattenti palestinesi in Cisgiordania. L’intesa includerebbe un impegno da parte del governo turco limitare l’insieme delle attività di Hamas in Turchia. Una volta raggiunta l’intesa finale tra le parti – questo il quinto punto – Turchia e Israele esploreranno la cooperazione nel campo delle risorse naturali di gas con Ankara che si impegnerà ad acquistare la materia prima dai giacimenti marini israeliani. 
Come se non bastasse è prevista la realizzazione di un gasdotto che dalla Turchia attraverso Israele esporti il prodotto in Europa. “L’intesa non ha avuto ancora la firma finale – affermano fonti israeliane – e si deve lavorare ancora su alcuni dettagli, ma la crisi è in via di risoluzione”.
D’altronde anche Israele soffre in maniera crescente l’agenda statunitense in Medio Oriente, e con la Turchia e le petromonarchie condivide l’avversione per l’asse sciita, ritenendo Hezbollah un avversario assai più pericoloso dello Stato Islamico e di Al Nusra – al Qaeda – che non a caso non hanno mai attaccato né Tel Aviv né i suoi interessi. Non importa che Israele abbia stabilito una sorta di patto di non aggressione con la Russia – in cambio di cosa non è ancora chiaro – e che gli israeliani da sempre vedano di buon occhio la costituzione di uno stato curdo che indebolisca tanto gli sciiti che i sunniti. Di questi tempi le alleanze, a geometria variabile (si può essere alleati con un paese su una questione e nemici su un’altra) si compongono e si scompongono nel giro di pochi mesi.

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