Le ultime “novità” che arrivano dall’Ucraina non annunciano nulla di nuovo; confermano solo la situazione di un paese allo sbando, tenuto in piedi solo dagli interessi di quegli stessi sponsor occidentali che, tramite i golpisti del febbraio 2014, continuano a puntare le proprie pistole cariche contro una Russia che incrementa ogni giorno la propria influenza internazionale e accresce a vista d’occhio il proprio potenziale geopolitico. E i proiettili sono i giochi sui prezzi del petrolio, principale voce di bilancio di Mosca, l’accerchiamento dei confini russi con l’allargamento della Nato, i ricatti economici realizzati in nome del “convincimento al buon senso”.
Che poi, all’interno della cornice ucraina, i colori si affastellino come sul pennello di un pittore esagitato, non è cosa che pesi più di tanto sulle scelte concrete dettate da oltreoceano alla cricca di Kiev.
E così, mentre era in corso ieri l’ultima seduta dell’Osce a Minsk per il 2015 e non ci si riusciva ad accordare sullo scambio di prigionieri, ma ci si limitava a “esprimere la speranza che gli abitanti dell’Ucraina orientale possano festeggiare l’anno nuovo in pace e piena sicurezza” (l’unico risultato del Minsk-2 è la fine dei bombardamenti “regolari” sulle città del Donbass, sostituiti da colpi sparsi ma incessanti), le artiglierie di Kiev continuavano a colpire: si insiste ad accumulare armi pesanti, carri armati, razzi, artiglierie di calibro 152 mm lungo la linea di demarcazione con le Repubbliche popolari, seguendo la formula per cui i princìpi altro non sono “se non regole che si prescrivono agli altri nel proprio interesse”; si consolida la fascistizzazione del paese, arrivando a proibire l’attività del partito comunista, dopo averne sciolto la frazione parlamentare e chiuso molte sedi; si affama la propria popolazione, in base ai dettami del FMI, pur di portare il bilancio militare al livello richiesto dalla Nato (in vista della futura adesione), ma si annuncia la moratoria sul debito verso la Russia, convinti che i tribunali daranno ragione a Kiev.
Si guarda con indifferenza la progettata proclamazione di una sorta di “minirepubblica ungherese” nella Trancarpazia ucraina, pur di compiacere gli sponsor eurostatunitensi dell’Ungheria. E intanto ci si azzuffa tra briganti, come nella migliore tradizione da “basso impero” in procinto di sgretolarsi: “poi che il danaro cominciò a salire in onore … l’integrità tenuta in conto di malevolenza” (Sallustio). Tanto che addirittura il vice presidente USA ha tuonato (ovviamente a scopo mediatico) contro la corruzione dilagante. Dopo le scene da giocolieri circensi alla Rada; dopo lo spreco d’acqua potabile in Consiglio dei Ministri, ecco le carezze da par suo sussurrate dal magnate Igor Kolomojskij alla treccia bionda più reclamizzata dai media occidentali, l’ex primo ministro Julia Timošenko: “E’ una prostituta”. Amen. L’ex governatore della regione di Dnepropetrovsk, alleato temporaneo con il premier catafaltico Arsenij Jatsenjuk e sodale del Ministro degli interni Arsen Avakov, nonché avversario (di cordate energetiche) del presidente Petro Porošenko e in lotta (di interessi) con il governatore di Odessa, l’ex presidente yankee-georgiano Mikhail Saakašvili, ha detto la sua all’agenzia Politico.eu in vista di probabili ricambi ai vertici ucraini. Kolomojskij afferma di non poter “appoggiarla, perché è una prostituta. E’ impossibile essere un po’ incinta; non è possibile stare nella coalizione e allo stesso tempo nel governo”, ha detto Kolomojskij riferendosi a Julia Timošenko; tuttavia, ha aggiunto, “Lei ha delle chance di diventare primo ministro o addirittura presidente”.
E, da gentiluomo, avendo riserbato al gentil sesso la parte romantica del proprio afflato, non ha risparmiato invece al “principale georgiano d’Ucraina” l’espressione più diretta della propria ispirazione, promettendo, “se lo vedrò da qualche parte, di rompergli la faccia”. Kolomojskij ha ammesso di aver finanziato la campagna elettorale di Saakašvili in Georgia nel 2011; ha ricordato i bei tempi in cui veleggiavano insieme sui mari di Croazia. Ma poi ci fu lo sgarro di Porošenko, che nominò il caucasico governatore di Odessa, facendo lo sgambetto al partner di Kolomojskij, Igor Palitsa e in seguito esonerando lo stesso Kolomojskij dalla regione di Dneprpetrovsk. Da lì il profluvio di gentilezze reciproche, per cui il magnate ucraino era diventato un “bandito e un gangster” e l’ex georgiano (Tbilisi gli ha tolto la cittadinanza) “un cane senza museruola” e “un tossico moccoloso”. Se con Porošenko l’accordo, alla fine, si trovò – tu lasci il governatorato di Dnepropetrovsk e io ti lascio fare i tuoi affari – con Saakašvili gli affetti sono andati a rotoli, tanto più ora che l’ex georgiano pare in predicato, insieme alla Timošenko, per scalzare dalla poltrona Arsenij Jatsenjuk.
Mentre il capo si dedicava a recitare questi versi all’indirizzo della Timošenko, i suoi squadristi di Pravyj sektor (il battaglione da lui foraggiato) prendevano il controllo dell’edificio municipale di Dnepropetrovsk, capoluogo della sua ex roccaforte. Così, tanto per saggiare il terreno. E i loro camerati del battaglione “Ajdar” hanno proceduto all’ennesima zuffa armata con un reparto dell’esercito regolare ucraino; ne dà notizia il comando delle milizie della DNR, aggiungendo che lo scontro sarebbe dovuto agli eccessi di vandalismo, rapine e uccisioni, cui si abbandonano i “volontari” neonazisti nel Donbass: crimini denunciati ripetutamente anche dall’Osce e cui non sarebbero estranei, secondo i dati raccolti dall’intelligence militare della DNR, anche i mercenari stranieri arruolati nelle file dei battaglioni. D’altronde, la loro presenza è stata “legalizzata” dalla relativa legge approvata alla Rada l’ottobre scorso. E il “Dnepr-1” starebbe programmando una propria offensiva contro Gorlovka, alle spalle delle forze regolari ucraine.
Questo, mentre le forze armate e i reparti nazionalisti, continuano i tiri di mortaio sulle cittadine della DNR a ridosso della linea di separazione, come è accaduto ieri a nord e sudovest di Gorlovka e a nord di Donetsk. Continua anche la cacciata della popolazione civile dalle proprie abitazioni nei territori meridionali del Donbass, per far posto all’acquartieramento dei soldati, nuovamente dislocati a ridosso dei confini delle Repubbliche popolari.
Se questa, in generale, è la situazione della “politica” interna e della linea di attacco esterno, di una “repubblica” le cui questioni si risolvono assoldando bande, ha senso – più che altro sul piano geopolitico – l’affermazione di Vladimir Putin, secondo cui Stati Uniti e Unione Europea, nella loro linea d’azione, non stanno difendendo gli interessi dell’Ucraina, ma cercano di impedire la ricostruzione dell’Urss, nonostante che Mosca non miri a quest’obiettivo. Il politologo Viktor Olevič sostiene che anche la politica delle sanzioni non corrisponde agli obiettivi dichiarati da Washington e non è legata alla situazione ucraina, ma mira a dividere la società russa e orientarla contro la leadership attuale. Dopo il prolungamento e l’allargamento (anche alla Crimea) delle sanzioni occidentali, Mosca sta valutando l’introduzione di misure di risposta, che potrebbero andare dall’innalzamento delle accise su prodotti USA, al divieto per le compagnie di intermediazione finanziaria yankee di operare con imprese russe, alla limitazione sull’utilizzo di carte Visa e MasterCard e alla possibile limitazione di acquisto di aerei Boeing.
A sua volta, la Commissione Europea ha accusato ieri Mosca (ma guarda!?), con la sua decisione di sospendere la Zona di libero commercio con l’Ucraina, del fallimento delle trattative per l’associazione di Kiev alla UE. Putin ha reagito qualificando, al contrario, i Commissari europei, con il loro “il gioco è finito”, di atteggiamento “non all’europea, del tutto intollerante”. Dal 2016 la Russia applicherà verso l’Ucraina i dazi d’importazione previsti dal tariffario doganale dell’Unione euroasiatica e la clausola della nazione più favorita; la risposta sallustiana di Mosca a quanti non vedono che “logorarsi per non mieter altro che odio, è suprema pazzia”.
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