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La Turchia contro lo Stato Islamico, i conti non tornano

Duecento miliziani dello Stato Islamico ‘resi inoffensivi’ nelle ultime 48 ore, cinquecento postazioni dei jihadisti colpite in Iraq ed in Siria. Appaiono assai roboanti le dichiarazioni rilasciate ieri dal primo ministro turco, l’islamista Ahmet Davutoglu, nel corso di un incontro con gli ambasciatori del paese riuniti ad Ankara. I numeri snocciolati dal primo ministro starebbero a dimostrare che finalmente il Partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan ha deciso di colpire i fondamentalisti sunniti che da sempre tollera quando non sostiene. La “svolta” ci sarebbe stata dopo l’attentato di martedì che ha provocato la morte di dieci turisti tedeschi nella zona più antica e turistica di Istanbul.
Peccato che siano molte le cose che non quadrano nel quadretto che il governo turco sta cercando di imbastire a beneficio dell’opinione pubblica interna e internazionale. 
A partire dalla responsabilità dell’attentato, attribuito immediatamente allo Stato Islamico, e dell’identità dell’attentatore sulla quale permangono molti dubbi. Intanto finora, contrariamente a quanto avviene normalmente, il Califfato non ha affatto rivendicato l’attacco di Sultanahmet; secondo, governo e media turchi continuano a descrivere l’attentatore come un cittadino siriano che si era spacciato per profugo poco prima di colpire a pochi passi dalla Moschea Blu una comitiva di turisti stranieri. Ma stando a quanto rivelato da fonti della polizia all’agenzia Dogan, il ventottenne che si sarebbe fatto esplodere si chiamava Nabil Fadli, ed era nato in Arabia Saudita.
Ma l’Arabia Saudita è un paese partner della Turchia nel sostegno al jihadismo e a un folto ventaglio di gruppi armati fondamentalisti che dall’Iraq alla Siria al Libano colpiscono i nemici di Ankara e delle petromonarchie, a partire dagli sciiti passando per i curdi e per tutte le altre minoranze etniche e religiose dell’area. Nonostante il fatto che il presunto attentatore fosse saudita, quindi, si continua a insistere sulla sua provenienza dalla Siria. Per poter giustificare, è lecito pensare, una ulteriore recrudescenza dell’intervento turco in quel paese, dopo lo stop alle mire espansionistiche di Erdogan causato dall’intervento militare russo in Medio Oriente di fine settembre e dalle continue vittorie militari dell’esercito di Damasco, delle milizie iraniane e di Hezbollah.

Perché, si chiedono in molti, il potente esercito turco non ha colpito duramente le postazioni di Daesh dall’altra parte del confine dopo la strage di Suruc, nel luglio 2015, o dopo quella che a ottobre ha ucciso un centinaio di partecipanti alla ‘Marcia della pace’ convocata ad Ankara da sinistre e movimenti curdi, e lo sta soltanto facendo ora?
Ma in realtà non è affatto sicuro che Ankara abbia realmente deciso di colpire duramente un movimento politico e militare che, non è un segreto, ha potuto contare fino ad ora su un’ampia agibilità in Turchia, spalleggiato da pezzi importanti degli apparati di sicurezza e dell’establishment, da quello ‘stato profondo’ o ‘parallelo’ che ha garantito ai jihadisti la permeabilità dei propri confini per portare armi e combattenti la dove servivano utilizzando la cosiddetta “l’autostrada della jihad”.

I media internazionali parlano di una vasta campagna di arresti condotti dalle forze di sicurezza di Ankara nei confronti di militanti o simpatizzanti di Daesh, ma stando alle notizie ufficiali gli arresti condotti da martedì non sarebbero neanche una decina. In un paese dove lo Stato Islamico dispone di basi operative, centri di reclutamento e addestramento, depositi di armi e munizioni sembra davvero una risposta insufficiente ad un attacco come quello di Sultanahmet. A fronte ad esempio dell’arresto negli ultimi mesi di migliaia di esponenti dei movimenti curdi o dei gruppi dell’estrema sinistra turca, che accusano Erdogan e soci di sostenere il Califfato per perseguire i propri interessi egemonici in Siria ed Iraq mettendo a rischio la vita dei cittadini che continuano a morire in attentati realizzati dall’Isis o, peggio ancora, attribuibili ad una strategia della tensione e ad un terrorismo di stato che l’Akp alimenta per rafforzarsi.
E’ difficile dire se i numeri decantati ieri da Davutoglu a proposito di obiettivi e miliziani di Daesh colpiti abbiano un qualche fondamento. Appare quantomeno sospetto che non siano stati i caccia di Ankara a martellare le basi dello Stato Islamico e che il compito sia stato affidato all’artiglieria. “E’ colpa della Russia – ha lasciato intendere il premier – se i nostri caccia non possono colpire i terroristi in Siria”, riferendosi alla dura risposta di Mosca dopo l’abbattimento di un suo caccia da parte di quelli turchi nei cieli del nord del paese.
Ankara vuole approfittare dello sdegno provocato dall’attentato di Istanbul – il fatto che nel mirino siano finiti i turisti preoccupa l’opinione pubblica nazionalista e islamista assai più di quando le vittime erano curdi o giovani di sinistra – per giustificare un intervento militare diretto in Siria ed Iraq? Appare abbastanza evidente quando Davutoglu afferma che “La Turchia continuerà a colpire il Daesh via terra”.
D’altronde la brigata corazzata inviata da Ankara in territorio iracheno, a pochi chilometri da Mosul, nonostante le veementi proteste di Baghdad, è ancora lì acquartierata in quella che di fatto è diventata una base militare in un territorio che il nazionalismo turco rivendica da quasi un secolo. Anche lì è stata la presenza dei miliziani di Daesh a fornire ad Erdogan e Davutoglu la scusa per mettere piede in Iraq, a dimostrazione che miliziani neri del Califfato rappresentano una pedina preziosa per le aspirazioni egemoniche del polo neo-ottomano.
Non è un caso che, se da una parte si accusa l’Isis di essere dietro l’attacco di Sultanahmet anche se mancano riscontri concreti, dall’altra il quotidiano filogovernativo Sabah ha denunciato un fantomatico complotto tra Russia, Iran e governo siriano. Il tutto esclusivamente sulla base del fatto che tre presunti membri dello Stato Islamico di nazionalità russa sono stati arrestati dopo l’attentato.
Riepilogando, allo stato non è possibile dire con certezza chi ci sia dietro l’attentato di Istanbul, così come d’altronde era avvenuto per le stragi di Suruc ed Ankara. Ma la differenza tra le diverse stragi non è di poco conto, visto che nei due casi precedenti erano stati i nemici di Erdogan e del suo regime ad essere colpiti, mentre in questo caso l’attentato di Sultanahmet infligge un duro colpo all’economia del paese – i flussi turistici sono una delle entrate principali – e all’immagine stessa del ‘sultano’ come garante della stabilità e della sicurezza del paese.
Che il regime islamista turco utilizzi, e non da ora, lo spauracchio dell’Isis per giustificare la caccia ai curdi e agli oppositori politici, la militarizzazione del paese, l’intervento nei paesi confinanti dall’alto del suo sostegno al Califfato non è un segreto per nessuno. Ma qualcosa potrebbe essere cambiato nei rapporti tra Stato Islamico e regime turco, così come lascerebbe pensare anche una improvvisa recrudescenza degli scontri tra organizzazioni jihadiste e Arabia Saudita, altro grande sponsor dell’Isis fino ad ora. O gli scontri avvenuti nei giorni scorsi vicino a Mosul tra truppe turche e miliziani di Daesh.
D’altronde se il Califfato è nato come strumento e pedina delle due potenze regionali sunnite è altrettanto vero che potrebbe nel frattempo aver sviluppato una spiccata aspirazione all’indipendenza. E, tra i confini nati dalla spartizione coloniale del vicino oriente ai tempi del trattato di Sykes-Picot che i fondamentalisti mettono in discussione potrebbero rientrare, per l’appunto, anche quelli di Turchia e Arabia Saudita.
Riad e Ankara hanno a lungo giocato col fuoco, da provetti fachiri, ma ora potrebbero cominciare a scottarsi. E nonostante tutto le mosse del regime turco continuano a dimostrare che, per Ankara, lo Stato Islamico rimane il male minore di fronte ai due grandi nemici degli islamisti al potere: la Siria di Assad e i curdi.

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