Le primarie per la presidenza degli Stati Uniti interessano più agli addetti ai lavori e ai cittadini europei che agli americani. L’affluenza che si sta registrando in questa folle corsa per la successione di Obama alla Casa Bianca oscilla tra il 10 e il 15% di stato in stato, con i repubblicani che battono (di poco) i democratici per numero di elettori alle urne. La spiegazione è semplice: i vertici del Gop stanno cercando di mobilitare tutto il mobilitabile e anche di più per fermare l’avanzata di Donald Trump, dunque è naturale che ci siano più cammellati ai seggi.
Insomma, quando parliamo di primarie americane parliamo di una questione di ceto politico, e Oltreoceano questa categoria è ben più inaccessibile che in Italia, tanto per dire.
Al netto di ogni considerazione su oligarchie e intelligenze democratiche (o presunte tali), le nomination appaiono ormai blindate, sia pure con qualche incognita. Il Mega Tuesday è finito con risultati piuttosto netti sia tra i repubblicani sia tra i democratici.
La Clinton ha più di 300 delegati di vantaggio su Bernie Sanders (1050 a 733), e il recupero appare assai difficile, anche perché gli aventi diritto al voto alla convention si distribuiscono su base proporzionale, particolare che rende praticamente impossibile la rimonta del socialista del Vermont, che comunque continua a condurre una grande campagna elettorale. Parlando in termini percentuali forse la comprensione è più facile: Hillary è al 44.1% dei delegati necessari alla nomination, Sanders al 30.8%. Una distanza enorme.
Tra i repubblicani la situazione è più complicata: Trump continua a vincere, e lo fa anche negli stati in cui parte come sfavorito (ah, i sondaggi…), Marco Rubio si è ritirato e adesso a sfidarlo rimangono i soli Ted Cruz e John Kasich. Anche qui, però, la distribuzione dei delegati parla da sé. Trump 653 (il 52.8% di quelli necessari per la nomination), Cruz 404 (32.7%), Rubio 170 (13.7%), Kasich 146 (11.8%). Strada in discesa dunque per il miliardario Donald, che ha come unico vero ostacolo la posizione dei vertici del Grand Old Party. Dopo le stoccate di Mitt Romney, è stata l’ex first lady Laura Bush a sferrare un nuovo attacco: «Gli Stati Uniti stanno attraversando un momento xenofobo, e questo non è affatto un bene». Trump, dal canto suo, ha fatto sapere che se il partito dovesse infine negargli la nomination, «ci saranno scontri e disordini». Il clima è questo.
Al netto di un vantaggio indiscutibile e di un elettorato che sta parlando in maniera abbastanza chiara preferendo il folle tycoon agli uomini di cartapesta calati dal vertice – marionette a tutti gli effetti per chi considera «Washington» il nemico numero uno –, i vertici del partito potrebbero tentare lo sgambetto alla convention. I repubblicani arriveranno a questo appuntamento decisivo verosimilmente spaccati in due (i pro Trump e gli anti Trump), e lì potrà succedere di tutto: occhio agli agguati, se Trump vorrà la candidatura dovrà portare con sé almeno 1237 delegati, cioè la maggioranza assoluta, visto che gli altri potrebbero compattarsi contro di lui.
L’unico precedente simile risale al 1976. Primarie tra il presidente uscente Gerald Ford e il governatore della California Ronald Reagan: alla convention si arrivò in una situazione «too close to call», con i due contendenti separati soltanto da un pugno di delegati, 1187 Ford, 1070 Reagan. La spuntò il primo, che poi si fece battere alle elezioni vere da Jimmy Carter. Il resto è storia: i democratici delusero e quattro anni dopo Reagan fece cappotto.
Mario Di Vito
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