Il portavoce del presidente Poroshenko, Andrej Lysenko ha ammesso ieri la morte di due soldati ucraini e il ferimento di altri dieci, in aree non direttamente adiacenti la linea del fronte nel Donbass. La ricognizione militare delle Repubbliche popolari dà notizia pressoché quotidianamente di incidenti, sparatorie tra reparti neonazisti e soldati ucraini, esplosioni dietro le linee, con uomini che saltano in aria sulle proprie mine, suicidi: eventi riconducibili per lo più, quando non direttamente a conflitti interni ai diversi reparti ucraini, a ubriachezza e negligenza.
Questi casi rientrano tra le più ampie perdite, per lo più in combattimento che, a detta del comando operativo della DNR, Kiev tenta di nascondere all’opinione pubblica ucraina. Il caso più recente è quello di circa 40 cadaveri insepolti di soldati ucraini rinvenuti nei giorni scorsi dalla ricognizione delle milizie nei pressi del villaggio di Sladkoe, una trentina di km a sudovest di Donetsk. Secondo il capo del comando operativo della DNR, Denis Sinenkov, nell’ultima settimana di scontri, Kiev avrebbe perduto almeno ottanta uomini; un’altra trentina, tra morti e feriti, sarebbero rimasti vittime di incidenti avvenuti nelle retrovie, di “fuoco amico” o di altri errori da parte del comando. Non solo, secondo le milizie della LNR, martedì scorso forze ucraine avrebbero impedito, a colpi di mortaio, la programmata restituzione alla parte ucraina dei corpi di circa duecento propri soldati, uccisi nell’attacco lanciato da Kiev la settimana scorsa contro il villaggio di Loginovo. Nella riconsegna dei corpi erano impegnati, insieme a un reparto delle milizie, osservatori dell’Osce e volontari dell’Unione dei veterani dell’Afghanistan di Lugansk, ma l’operazione ha dovuto essere interrotta a causa del martellamento dei mortai di Kiev.
In generale, oltre alla drammaticità di tale situazione, Kiev ha poco da stare allegra. A rincuorare gli ucraini non basta, scrive Dmitrij Rodionov su Russkaja Vesna, la freschissima istituzione (la Rada l’ha ufficializzata a maggio) di una nuova ricorrenza, il 5 luglio: la Festa della liberazione di Slavjansk e Kramatorsk, nella Operazione AntiTerrorismo celebrata da Petro Poroshenko come “autentica Guerra patriottica”, con evidente riferimento dispregiativo alla Grande guerra patriottica dell’Urss contro la Germania nazista. Con la riconquista di quei centri, inizialmente controllati dalle milizie popolari, “i soldati ucraini mostrarono al mondo intero un esempio di liberazione di città”, ha detto Poroshenko, nel momento in cui nuovi quartieri di Donetsk finiscono sotto i tiri delle artiglierie ucraine e civili rimangono feriti, come accaduto ripetutamente negli ultimi giorni, con interi isolati andati a fuoco. Le truppe ucraine “liberarono dall’occupazione gran parte del Donbass e avrebbero ripulito la restante parte, se non ci fosse stata l’invasione. Invasione diretta di reparti dell’esercito russo attraverso la frontiera di Stato”. E le prime città ad esser “liberate furono Slavjansk e Kramatorsk, a quel tempo avamposti nemici nel Donbass. Proprio quel successo generò sicurezza nei difensori ucraini, mentre privò gli aggressori russi di ogni fiducia in una rapida vittoria”, ha proclamato ancora Petro, dopo l’attacco contro Debaltsevo della settimana scorsa, risoltosi in una quasi replica della disfatta ucraina del febbraio 2015.
In compenso, Petro ha “innovato” le mostrine sulle uniformi degli ufficiali, sostituendo la stella del periodo sovietico coi rombi adottati a suo tempo dalla Legione volontaria ucraina che combatté dalla parte degli Imperi centrali nella Prima guerra mondiale e ripetuti poi dai collaborazionisti filonazisti dell’UPA: rombi simili a quelli delle uniformi della Wehrmacht. Ma, nota il politologo ucraino Jurij Gorodnenko, come praticamente non esisteva un esercito ucraino due anni fa – la celebrata “riconquista” di Slavjansk, ormai è riconosciuto da tutti, non fu altro che un freno “consigliato” da Mosca all’avanzata delle milizie, altrimenti senza ostacoli – così non esiste nemmeno oggi. “E’ difficile chiamare esercito quell’accozzaglia di gente che ruba, stupra, uccide i civili, al solo scopo di inviare a casa l’ennesimo pacco di quanto depredato nel Donbass. Saccheggiano, tra l’altro, luoghi in cui, già anche senza le loro razzie, le persone non conducono una vita agiata, dato che le classi medie vivono per lo più nelle grandi città, come Donetsk e Lugansk. No, questo non è un esercito: è una teppa di predatori, saccheggiatori di chincaglierie, pronti a qualsiasi crimine per un vecchio frigorifero o un po’ di biancheria”.
Inoltre, come fa Poroshenko a definire la guerra nel Donbass “guerra patriottica”, si chiede il pubblicista ucraino Dmitrij Skvortsov: ufficialmente, Kiev parla di Operazione antiterrorismo che, tra l’altro, per legge, dovrebbe esser condotta esclusivamente con forze speciali e non con l’esercito. E come si può parlare di Guerra patriottica, senza aver dichiarato lo stato di guerra? Quanto poi ad aver mostrato “al mondo intero un esempio di liberazione di città”, come proclama Poroshenko, Slavjansk e Kramatorsk rimasero saldamente in mano per tre mesi a un paio di migliaia di miliziani, contro i quali era schierato l’intero esercito ucraino. Forse un minimo di pudore ha impedito a Petro di celebrare, insieme alla “liberazione di Slavjansk e Kramatorsk”, il bombardamento aereo che i caccia ucraini effettuarono tre giorni prima, il 2 luglio 2014, sui rioni civili di Stanitsa Luganska, che fece nove morti e decine di feriti, tra cui molti bambini: un’altra lezione di “capacità militare” dimostrata al mondo dall’esercito ucraino. Forse del genere della “esperienza” di cui Kiev si sente ricca e che si appresta “a condividere con la Nato”, come ha dichiarato il vice direttore del Centro di ricerche militari, Mikhail Samus, alla vigilia dell’apertura del vertice Nato di Varsavia. “In questo summit, per la prima volta non sarà l’Ucraina a sperare in un aiuto della Nato, bensì la Nato potrà contare sull’aiuto ucraino”, ha dichiarato modestamente Samus. “Non è escluso che si decida la creazione in Ucraina di un Centro Nato per il contenimento delle minacce ibride. E’ proprio l’Ucraina” ha specificato sobriamente Samus, “che può aiutare la Nato a comprendere il nocciolo della guerra ibrida, dato che in Europa, soltanto l’Ucraina è oggi forte dell’esperienza della guerra ibrida con tale avversario quale la Russia”.
Intanto però, fatti ben più consistenti che non le mostrine in stile Wehrmacht, si affacciano su Kiev. Dopo che, il 28 giugno scorso, Poroshenko aveva parlato di modifiche alla Costituzione, accennando a una fumosa “autonomia dei tatari di Crimea”, la comunità bulgara ha colto la palla al balzo, chiedendo la possibilità di creare proprie autonomie nelle regioni di Odessa e Kherson, in cui vivono numerosi gruppi etnici bulgari. Prima di loro, si era fatta avanti l’Assemblea dei rumeni di Bucovina. Richieste di autonomia vengono di tanto in tanto anche dalle regioni di Kharkov, Odessa e addirittura dalla Galizia, patria dei neonazisti. Ma Kiev non ha alcuna intenzione di soddisfare le richieste di autonomia, che vengano dall’est o dall’ovest. Un anno fa era la Bessarabia meridionale che minacciava la divisione da Kiev, con i Gagauzi della Moldavia meridionale e i Bessarabi della regione di Odessa che intendevano dar vita a una Repubblica autonoma di Budžak, la Bessarabia Vecchia: i due giornalisti ucraini scarcerati a metà giugno erano stati arrestati un anno prima solo per aver partecipato al congresso della “Rada popolare di Bessarabia”, in cui si era accennato a una federalizzazione dell’Ucraina.
Dopo la sparata di Poroshenko a proposito dei tatari di Crimea, il politologo ucraino Oleg Soskin aveva previsto: “cosa diranno ebrei, bulgari, polacchi, ungheresi, rumeni… Poroshenko dovrà concedere l’autonomia ai rumeni della Bucovina settentrionale, nella regione di Černovits, o agli ungheresi dell’Oltrecarpazia”. Il politologo Aleksej Martynov ha dichiarato a Svobonaja Pressa che l’unica strada per “conservare l’integrità dell’Ucraina è quella della struttura federale, ma questo è molto difficile: in Ucraina vivono più di due decine di nazionalità diverse. I moderni leader di Kiev, a partire da quelli del 1991, sono consapevoli del fatto che in Ucraina non può esserci alcuno stato unitario; se garantiranno scuole secondo le lingue nazionali, rispetto delle tradizioni etniche, sarà inevitabile il separatismo. L’unica strada è una federazione, un’unione di popoli diversi. Nelle condizioni attuali, la segmentazione e il disfacimento dell’Ucraina sono inevitabili.
In Ucraina non esiste oggi uno Stato effettivo, dice il politologo Semën Uralov: ha più potere chi ha più battaglioni armati. In questo sistema, Poroshenko non è che il primo tra uguali, ma la sua stabilità è molto incerta. Lo Stato continuerà a disfarsi.
Anche perché, nell’Ucraina del potere golpista, così come Sallustio scriveva di Giugurta, “il pubblico bene, come per lo più suole accadere negli affari, dai privati interessi fu vinto”.
Fabrizio Poggi
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