Dura lex – Anche ieri a Istanbul una folla si stringeva attorno al leader salvato, con qualche hijab in più, quelli che nella notte della tensione e della difesa del leader e della patria, i mariti, i fratelli, i padri avevano costretto in casa. Probabilmente per tradizione anziché per senso di tutela. Erdoğan in persona ha annunciato per domani un Consiglio di Sicurezza Nazionale che prenderà in esame la situazione straordinaria in cui la Turchia si ritrova dopo il tentato golpe. In realtà quel Paese vive da un anno una guerra civile strisciante nel sud-est, dove la comunità curda è massacrata da reparti dell’esercito. E’ sotto attacco per mano dell’Isis con bombe sanguinarie rivolte ai civili e con attentati mirati di miliziani del Pkk contro obiettivi dell’esercito. La Terza armata, diretta da uno dei generali golpisti, era impegnata proprio nella repressione delle province orientali dell’Anatolia e aveva subìto cospicue perdite in assalti dei guerriglieri curdi. Il presidente da politico navigato della categoria più pericolosa, quella degli autocrati e giocatori d’azzardo con le sorti della nazione, non ha rivelato quale sarà il tema clou dell’assise di domani. Per quanto s’è visto e sentito nelle ultime ore, in cui la vendetta ruba il posto alla difesa delle istituzioni e alla terzietà della giustizia, in tanti pensano si tratterà del ripristino della pena di morte.
Il popolo lo vuole – Introdotta o agitata come una minacciosa clava sulla testa dei nemici interni e dei falsi alleati occidentali. Misura estrema da riattivare nei casi estremi: l’alto tradimento di cui si sono macchiati militari e soprattutto ufficiali golpisti. La loro conta s’è fermata, per ora, a seimila, cui s’aggiungono oltre un migliaio di civili che lavoravano per l’esercito e che sono ritenuti complici o semplicemente vicini al movimento Hizmet, la struttura non organizzata in partito manovrata da Fethullah Gülen, che secondo gli accusatori agisce come un partito occulto, anzi come uno Stato parallelo e mina i gangli degli organismi ufficiali. Ma nei due giorni seguiti allo shock dei voli radenti di F-16, di cannoni per via e alcuni missili sui palazzi del potere, sono comparse ampie liste d’indagati e reprobi, secondo parecchi commentatori preparate da mesi e lasciate nei cassetti per l’opportuno uso che quest’occasione fornisce. E poiché gli arresti di queste ore sono molto più numerosi di quelli che il regime erdoğaniano ha praticato negli ultimi anni, dalla rivolta del Gezi park all’imbavagliamento di giornalisti e oppositori, i timori crescono. Anche alla luce del sostegno popolare alle misure draconiane. Sono in atto veri e propri pogrom con sospensione e sostituzione di giudici (3.000), licenziamenti nei ruoli statali (9.000) una svolta inquietante che, se si dovesse reintrodurre la pena di morte, diventerebbe apocalittica.
L’incubo del passato – La forma coercitiva estrema e inumana in Turchia è stata sospesa recentemente, proprio durante il premierato di Erdoğan, nel 2004. All’epoca la linea del capo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo appariva conciliante, si parlava di democrazia oltre che di crescita economica ed emancipazione per gli strati più umili. Si voleva cancellare l’immagine arretrata e canagliesca che i regimi militari avevano perpetuato per decenni, costringendo alla galera lo stesso leader islamico la cui fedina penale sporca gli consentì un ritorno in politica solo dal 2002, l’anno della scalata al grande potere. Nei vari colpi di stato gli elmetti kemalisti avevano seminato sangue e terrore. Soprattutto fra il 1980 e l’84 quando gli oppositori impiccati salirono a cinquanta. Nel 1972 sul patibolo erano saliti i leader dell’opposizione studentesca Deniz Gezmiș, Hüseyn İnan, Yusuf Aslan. Nel 1961 i generali avevano messo la corda al collo all’ex primo ministro Adnan Menderes, figura storica della Turchia moderna, che staccandosi dal partito unico kemalista veniva considerato colpevole d’aver rivolto troppo lo sguardo all’Islam e legalizzato la preghiera in arabo. Con lui salirono sul patibolo due membri dell’esecutivo: Zorlu e Polatkan. Quella tolleranza che aveva condotto Ankara a bussare alle porte di un’Unione Europea, rimasta sempre riottosa e matrigna verso le sue richieste, potrebbe sparire per l’attuale real politik.
I Paesi della morte – Fra i propri molteplici peccati la Ue conserva il buon senso di mostrarsi fedele ai princìpi illuministici del Beccaria ed è l’unico continente assieme all’Oceania a non utilizzare la condanna a morte. Diverse sono le situazioni di Asia, Africa e Americhe, col presunto cuore della civiltà degli Stati Uniti. In Asia la pena capitale è ammessa con diverse motivazioni in: Afghanistan, Arabia Saudita, Bangladesh, Cina, Corea del nord, Emirati Arabi Uniti, India, Indonesia, Iran, Iraq, Giappone, Giordania, Kuwait, Malesia, Pakistan, Singapore, Siria, Taiwan, Thailandia, Vietnam, Yemen. In Africa in: Libia, Egitto, Etiopia, Guinea equatoriale, Botswana, Nigeria, Somalia, Sudan, Sud Sudan. L’unica nazione del continente americano a utilizzare la pena letale sono gli Stati Uniti. Non tutti, solo in 24 Stati i boia sono al lavoro. I motivi delle condanne, secondo gli usi, i costumi, le fedi, le ideologie di ciascuna nazione, possono essere vari e dal comune denominatore di altro tradimento e attentato alla sicurezza del Paese e del popolo, si passa a diserzione, terrorismo, apostasia, omicidio, stupro, rapina, traffico di stupefacenti, prostituzione, stregoneria, omosessualità, frode e altro ancora. Sulle sponde del Bosforo, nella bella Istanbul resa cosmopolita dalla storia trascorsa e da quella recente tratteggiata dal turismo, si teme che la Turchia possa rientrare in questo tragico elenco, introducendo, come nei tempi bui, il reato di pensiero e di speranza in una società diversa.
Enrico Campofreda
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