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L’America di Donald

Adesso si comincia a fare sul serio. Passata la sbornia della campagna per la nomination, Hillary Clinton e Donald Trump si preparano ad affrontare la corsa vera, quella che porta alla Casa Bianca.

La cronaca dice che Donald ha ottenuto già la sua candidatura durante una convention tesissima, mentre da oggi, lunedì, toccherà ai democratici, che incoroneranno Hillary senza troppi patemi d’animo, tra i sorrisi di due nemici più o meno storici come Barack Obama e Bernie Sanders.

Le prossime settimane saranno buone anche per capire davvero che aria tira dall’altra parte dell’Oceano: i sondaggi che abbiamo letto fino ad oggi avevano un’attendibilità quantomeno parziale – troppo schiacciati sulle primarie, troppo lontani dal fatidico 8 novembre, quando si voterà –, mentre da adesso in poi bisognerà cominciare a prestare attenzione ai numeri: la campagna elettorale parte ufficialmente e ora si decide se nasce o se muore un presidente.

Trump, come detto, ha ottenuto la nomination. Osannato dalla platea, latore di incredibili gaffe (il discorso di sua moglie Melania era un copia e incolla palese di quello fatto da Michele Obama nel 2008, e ci sono volute 38 ore di ridicolo sui social network prima che dallo staff repubblicano qualcuno chiedesse scusa –, assistito da vecchie e impolverate star televisive (Scott Baio e Kimerlin Brown, rispettivamente da Happy Days e Beautiful), gonfio di retorica anni ’80 tra Rocky Balboa e ‘We are the champions’, Donald ha visto il partito repubblicano sgretolarsi intorno a sé. Oltre alle rumorose assenze dei Bush e degli ultimi due candidati alla presidenza Mitt Romney e John McCain (tra l’altro preso crudelmente in giro perché ai tempi del Vietnam si era fatto catturare dai Vietcong), da sottolineare c’è il pesante attacco portato sul palco da Ted Cruz, che ha invitato la platea a «votare secondo coscienza», ovvero né Hilary né Donald, ma soltanto per i candidati repubblicani al congresso. Fischi per lui, ma il partito ormai non c’è più, come ha sottolineato anche Megan McCain (figlia di John) su Twitter: «The party I was part of is dead», il partito di cui facevo parte è morto. Come si dice a Pasqua: auguri.

La verità, in effetti, è che The Donald sta passando sopra a tutto quello che il Grand Old Party è stato da Reagan in poi, riuscendo tuttavia nell’operazione pindarica e un po’ situazionista di recuperare l’edonismo reaganiano come forma di storytelling. «Make America Great Again» è lo slogan, e la mente corre veloce agli anni ’80, al boom finanziario, alla vittoria della Guerra Fredda. Il problema è che dietro a tutto questo manca la sostanza, anzi, il poco che si intravede è l’esatto opposto delle politiche attuate in quella stagione. Non è dato sapere, in altre parole, che America sarà quella di Trump, dando per oggettivamente infattibili cose come il muro alla frontiera con il Messico e la rottura unilaterale di tutti i trattati commerciali esistenti (e, guarda un po’, per lo più stilati durante la presidenza di Bill Clinton).

In questo senso è utile citare un articolo uscito qualche giorno fa sul New York Times, in cui si riferiva di un incontro tra Donald Trump Jr e John Kasich. Sul tavolo della trattativa c’è il posto da vicepresidente.

«Sarai il vicepresidente più potente della storia – ha detto il giovane Trump – perché mio padre intende delegarti la politica interna e quella estera».

Allora Kasich ha ribattuto: «Ma allora, di grazia, di cose si occuperà tuo padre?».

Risposta di Donald Jr: «Making America great again» (“Di rendere l’America di nuovo grande”). Andiamo bene.

Dietro al suo ciuffo biondo, Donald sta comunque cominciando a tessere una tela che dovrebbe aiutarlo in caso di vittoria. Il vicepresidente designato è Mike Pence, governatore dell’Indiana e rappresentante della vecchia guardia conservatrice, tra liberismo fiscale e tagli ai servizi sociali, nonché simpatizzante del Tea Party. Un modo abbastanza scaltro di mantenere vivi i rapporti con una fetta (ancora) importante del Gop, nell’imprevedibile guerra di posizione che sta andando in scena tra il candidato alla presidenza e l’establishment del partito, che prima della convention ha addirittura provato, senza successo, a ribaltare la nomination.

Se Sparta piange, comunque, Atene certo non ride. Hillary Clinton è ritenuta da molti una candidata con un’infinità di punti deboli e il feeling tra lei e l’elettorato democratico proprio non è mai scoccato. Certo, dalla sua parte c’è la gran parte dell’establishment statunitense e la sua popolarità tra gli afroamericani è quasi ai livelli di quella di Barack Obama, ma la sua candidatura viene vista come espressione dei poteri fortissimi che la maggioranza della popolazione occidentale ormai odia a morte. Gli Stati Uniti, però, non sono l’Europa: a votare ci vanno storicamente in pochi e la famosa «gente» spesso preferisce rimanere a casa invece di andare a scegliere il meno peggio, o il candidato del «tanto peggio, tanto meglio»: in questo senso la sfida è tra i due candidati più impopolari della storia statunitense, e bisognerà capire soprattutto chi voterà contro chi, in un allucinante gioco di specchi e di scambio dei ruoli tra upper e lower class.

Su chi preferisce il salto nel vuoto senza rete di protezione alla vecchia liturgia della politica tradizionale e tendenzialmente sporca, a conti fatti, punta parecchio Trump, consapevole di essere diventato, per un assurdo scherzo del destino, l’uomo contro la classe dirigente statunitense. Come sia possibile che come argine al sistema più marcio venga preso uno che ha costruito la propria fortuna sulla speculazione immobiliare più spietata, sul wrestling e sul trash televisivo, beh, qui siamo più nel campo della metafisica dei costumi che della politica.

 

Mario Di Vito

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