I dissidenti del nord-est – La vicenda narrata da Ubaid Ali – un ricercatore che ha seguìto le concitate fasi dell’attacco talebano a Kunduz – su nuclei di miliziani uzbeki del Jundullah Group, è sintomatica di quanto sta accadendo in questi mesi in Afghanistan. Una lotta per l’egemonia nell’insorgenza contro le truppe Nato e l’esercito afghano e per il controllo di tante province, dove dettano legge i governatori-ombra che rispondono alla turbolenta famiglia talebana. In alcune di queste zone l’Isis cerca e trova alleanze per dissapori e contrasti fra gruppi etnici minoritari e i vari clan della galassia talebana. E’ accaduto nell’autunno 2015 nell’area di Takhar: lì i membri del Jundullah hanno portato la bandiera nera del Daesh in alcuni villaggi. Takhar è un distretto di circa un milione di abitanti, prevalentemente di etnìa tajika e uzbeka e qualche presenza hazara. Il 9 settembre 2001 in quella località venne assassinato il comandante Massoud, utilizzando un’intervista televisiva mascherata. Una trappola alla quale non sfuggì neppure il mitizzato leader militare dell’Alleanza del Nord. Quali legami hanno avuto gli attuali guerriglieri uzbeki del Jundullah con Abdolmalek Rigi, capo della struttura combattente originaria presente nel Baluchistan, che venne catturato, processato e impiccato nel carcere iraniano di massima sicurezza di Evin nel 2010, non è dato sapere. Probabilmente nessuno, vista la distanza temporale che separa i fatti: cinque anni nelle vicende di combattentismo e terrorismo possono diventare un’eternità. Certo le azioni di disturbo verso Teheran compiute dall’organizzazione proseguono e insistenti voci indicano una copiosa infiltrazione del gruppo da parte di agenti della Cia, com’era accaduto per Qaeda. Così i distinguo compiuti dai talebani afghani, che s’oppongono ferocemente agli Usa, sono risultati più marcati.
Chi è Jundullah – E’ un gruppo composto da uzbeki e tajiki, più arabi e aimaq che tempo addietro s’era diviso dal movimento islamico uzbeko (Imu). Il movimento uzbeko aveva avuto un ruolo nel conflitto civile tajiko degli anni Novanta, prima di ritirarsi in Afghanistan e allearsi coi talebani durante il loro governo (1996-2001). Dopo la caduta del regime degli studenti coranici elementi del Jundullah seguirono i talebani nell’esilio in Pakistan e nella nuova base nel Waziristan. Dal 2009 Jundullah ha combattuto al fianco dei talib contro il governo Karzai, conservando però fronti di lotta indipendenti, con comandanti separati in due distretti di Kunduz e uno a Takhar. Già nel 2014, sotto il nuovo leader Osman Gazi, il movimento uzbeko aveva trasferito il suo appoggio dal network talebano a quello del Daesh. Fu sempre Gazi, a fine di quell’anno, a dubitare della sopravvivenza del mullah Omar, tanto da esplicitare il suo assenso alle scelte di Al Baghdadi, chiamandolo ‘Califfo’ e accettandone l’autorità. La decisione era assecondata da altri nuclei uzbeki. Nel novembre 2015 il neo leader talebano Mansour ordinò un attacco a questi dissidenti nell’area di Zabul, dove Gazi trovò la morte. La rottura coi Taliban riavvicinò Jundullah al movimento islamico uzbeko E quest’ultimo restituì il gradimento, accusando i turbanti locali di combattere i migranti uzbeki che avevano lasciato le loro case per venire a proteggere l’Islam. Anche costoro svolgevano azioni di resistenza contro l’esercito di Kabul senza accordarsi coi vertici talebani. Il reclutamento avveniva fra la gente delle province di Kunduz e Takhar, alla cui guida si era posto un giovane religioso, Qari Yaser, rimpiazzato dopo la morte da un altro chierico, Khairullah, parente del mullah Muhammad Ali, un ex comandante talebano di Baghlan.
Clan ed etnìe – A un certo punto per motivi sconosciuti Khairullah sparì (fuggito?, ucciso da amici diventati nemici? non è dato sapere) e alla direzione del gruppo è comparso tal Qari Salahuddin, un uzbeko proveniente da una famiglia religiosa. Il padre e il nonno erano stati predicatori in una moschea dell’area di Borka e lo stesso Salahuddin rivestiva quel ruolo. Secondo una fonte vicina ai talebani questo nuovo leader veniva accreditato dai miliziani uzbeki più anziani e portava con sé decine di combattenti. Nell’agosto 2015, il capo Jundullah della provincia di Kunduz, Qari Bashir Madani, fu ucciso assieme ad altri luogotenenti da un attacco statunitense coi droni. Il gruppo s’era indebolito e con l’offensiva talebana su Kunduz i turbanti minacciavano di disarmare i dissidenti che non si fossero uniti a loro. Così la maggioranza dei guerriglieri Jundullah riparò verso Eshakamesh e Takhar, aree a sud di Kunduz divenute di opposizione ai talebani anche per quanto era accaduto nei sei anni precedenti: i talebani rivestirono sempre meno un ruolo sovra etnico, avvicinandosi alle minoranze pashtun. Uzbeki e tajiki si sentivano abbandonati ma volevano proseguire una resistenza antigovernativa pur avendo limitata organizzazione militare. A fine settembre scorso, quando iniziava l’assedio talebano di Kunduz, i combattenti di Salahuddin lanciarono un proprio attacco al distretto di Eshkamesh e iniziarono una propaganda pro Isis nei villaggi. Secondo altri osservatori ciò accadeva solo perché tutti i reparti talebani erano impegnati nella battaglia di Kunduz. Il mullah Jano, talebano capo della locale commissione giudiziaria, nel giro di poche ore rimpiazzò Salahuddin con un comandante pashtun a lui gradito tal Saifullah, fino a quel momento capo della commissione militare nel distretto. Insomma i Taliban si son trovati di fronte al bivio di reprimere i giovani uzbeki affiliati al Daesh e ascoltare le suppliche dei loro capi tribali più anziani che promettevano di non offrire più rifugio a Salahuddin e a chi lo seguiva. Un conflitto generazionale.
Le radici talebane – Malgrado l’iniziale minaccia di uccidere Salahuddin, i talebani necessitavano d’una buona motivazione. Se l’avessero ucciso la tensione etnica, che comunque ribolle sotto la superficie, si sarebbe indubbiamente intensificata. Tutto ciò avrebbe danneggiato e forse azzerato le relazioni fra talebani e comunità uzbeke. Questo confronto a distanza, che si sarebbe potuto trasformare in aperta competizione, era considerato uno strappo pericoloso anche per Salahuddin che probabilmente ha diminuito le pretese. Così negli ultimi tempi agli alleati del Daesh restava una presenza significativa solo nella provincia del Nangrahar, mentre nel nord-est essa non risulta più né ampia né preoccupante. Le bandiere sventolanti sembrano siano limitate ad alcuni villaggi e i miliziani neri sono stati inseguiti da distretto a distretto, a differenza di quel che era accaduto a Farah nel 2015. A detta dello studioso ultimamente i simpatizzanti del Daesh riducono il loro impegno all’uso della propaganda con videomessaggi tradotti in dari e diffusi tramite la rete e social media: c’era anche una pagina su Facebook denominata Mujahedin-e Qala-ye Zal, in seguito cancellata. E’ difficile determinare il numero di questi supporter, sia di quelli che imbracciano un’arma sia di chi usa l’arma del web. Ciononostante, addirittura la capitale è posta sotto scacco da attacchi combinati e stragi mirate, com’è accaduto alla recente manifestazione della gente hazara che protestava contro decisioni governative sulla negazione di una vitale linea elettrica. Quali siano le basi dell’Isis a Kabul è l’ennesimo mistero mediorientale, con una pista che oltre alle spiegazioni degli interessi etnici va diritto verso gli intrighi della finanza geostrategica e militare con tanto d’implicazione delle Intelligence.
Enrico Campofreda
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