Il G20 ha detto chiaro e tondo che i “grandi” del pianeta viaggiano ognuno per conto proprio e non riescono – non perché non vogliano – a prendere alcuna decisione coordinata circa la gestione della crisi. Che è sempre lì e spinge al ribasso tutte le previsioni di crescita. Ma ogni crisi è anche un’opportunità, ci ripetono a ogni piè sospinto, e dunque ogni soggetto politico-economico sufficientemente forte ritiene di poterne uscire prima o poi in una posizione migliore rispetto a come vi era entrato.
Di conseguenza tutte le piazze finanziari, stamattina, vanno maluccio. Non tanto, certamente, ma quanto basta per bloccare ogni tentativo di recuperare pienamente le gravi perdite subite dall’inizio del nuovo anno. Anche le borse europee, arciconvinte che la Bce, tra pochi giorni, accentuerà i suoi sforzi per iniettare liquidità nel sistema, hanno smesso di far segnare guadagni consistenti.
In questa improvvisa maggiore prudenza pesa anche il calendario. Esattamente un anno fa la Bce dava il via al quantitative easing europeo – tassi di interesse a zero e acquisti di titoli per 60 miliardi al mese – nel tentativo di contrastare la deflazione e spingere i prezzi al’insù, fino al livello considerato ottimale, intorno al 2%. Anzi, a leggere i dati Istat di stamattina, si deve registrare l’esatto contrario: dopo nove mesi, infatti l’Italia torna decisamente in deflazione con una variazione dei prezzi del -0,2% su base mensile e del -0,3% su base annua. Stessa tendenza dell’Eurozona, peraltro: il tasso d’inflazione della zona con la moneta unica è del -0,2% mensile a febbraio, contro il +0,3% di gennaio, e del -0,3% annuo.
Tentativo dunque completamente fallito, come segnalano anche alcuni indici che prevedono un tasso di inflazione – da qui a cinque anni – ancora all’1,37%. Il livello più basso mai registrato. Anche la responsabilità deflazionistica del prezzo del petrolio, precipitato in pochi mesi a poco più di 30 dollari al barile, non avrà a quel punto (ma già alla fine di quest’anno) alcun peso statistico; perché, se anche il prezzo del greggio resterà al livello attuale, non porterà comunque più un segno “meno” rispetto all’anno precedente.
Del resto alla Federal Reserve sono stati necessari ben sei anni di politica monetaria accomodante per far registrare qaulche timida crescita del Pil, una modesta ripresa dell’occupazione (tenendo conto del fatto che i nuovi posti di lavoro sono in genere molto più dequalificati e a basso salario) e, anche lì, un tasso di inflazione ancora lontano dagli obiettivi.
Dunque – risultati del G20 a parte – si va facendo strada la constatazione che la sola politica monetaria non riesce in nessun modo a cambiare in meglio la situazione, Certo, l’allentamento monetario ha evitato il crollo generalizzato dell’area euro che nell’estate del 2012 sembrava vicinissimo, ma non funziona nel risollevare un’economia depressa.
Se ne sono accorti soprattutto dalle parti di Confindustria, visto che sul loro giornale il sempre lucido Vito Lops è costretto a far notare (anche ai suoi datori di lavoro…) che
E’ un problema strutturale. I mercati hanno ben chiaro che l’Eurozona sta vivendo una crisi della domanda e finché non arriveranno nuove risorse alla domanda (e quindi in particolare al ceto medio-basso della popolazione) attraverso un aumento del reddito o una diminuzione fiscale che ne aumenti il potere di acquisto, sarà difficile immaginare un futuro con un’inflazione “sana” intorno al 2%.
Ma come si stimola la domanda? Se la politica monetaria della Bce non basta, l’unica via sarebbe quella classicamente keynesiana: aumentare il reddito disponibile dei consumatori-massa, ovvero di lavoratori (con ogni tipo di contratto), pensionati, ecc. Questo vorrebbe dire aumentare i salari, o almeno aumentare gli istituti del welfare (che riducono una serie di spese familiari obbligate). Ma l’Unione Europea – lo ha ripetuto anche al vettice del G20 a Shangai, per bocca del terribile Wolfgang Scaheuble, ministro delle finanze di Berlino – persegue con implacabile follia l’obiettivo opposto, abbassarli ancora, nel tentativo delirante di migliorare per questa via la competitività globale della produzione continentale.
L’accento posto sulla maggiore competizione globale impedisce logicamente qualsiasi tentativo di “cooperazione”, nello sforzo disperato di far pagare a qualcun altro i costi della stagnazione, se non proprio della recessione (che c’è già in alcune aree monetarie, ma non in tutte). Competizione che esce sempre più spesso dai confini della semplice economia per sfociare sul terreno diplomatico e – pericolosamente – militare. Più imperialismi, insomma, non soltanto uno. Altrimenti, detto in parole semplici, un accordo unitario al G20 sarebbe stato trovato, pur tra molti mugugni. E invece no.
Messa così, non ci sono vie d’uscita. Per lo meno a breve termine e senza che qualcuno, alla fin fine, si faccia molto male. E i “mercati”, questo, lo capiscono prima di tutti noi.
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