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Anche il Caucaso tra i temi dell’incontro tra Putin e Erdoğan

Alla vigilia dell’incontro con Vladimir Putin, previsto per domani a Pietroburgo, Recep Erdoğan ha rilasciato una sterminata intervista alla Tass, diversi passaggi della quale sembrano voler spianare il terreno al ritorno verso una collaborazione tra Turchia e Russia; terreno già abbondantemente preparato nelle ultime settimane, immediatamente precedenti e, soprattutto, successive, al fallito colpo di stato a Istanbul.

Secondo la Tass, Erdoğan, che ha definito Putin “amico”, prevede una nuova larga apertura tra Russia e Turchia. “Sarà una visita storica, un nuovo inizio” ha detto il sultano; “sono convinto che nei colloqui col mio amico Vladimir verrà aperta una pagina nuova nei rapporti bilaterali. I nostri paesi hanno molto da fare insieme”. Erdoğan ha anche sottolineato che “soltanto in collaborazione con la Russia riusciremo a risolvere la crisi in Siria”. Le Izvestija ricordano come i rapporti tra Mosca e Ankara fossero di fatto scesi al minimo dopo che nel novembre scorso caccia F-16 turchi avevano abbattuto un cacciabombardiere russo Su-24 impegnato contro lo Stato Islamico in Siria. Solo lo scorso 28 giugno Erdoğan aveva indirizzato una nota a Mosca in cui si scusava per l’abbattimento ed esprimeva interesse al ristabilimento di rapporti normali tra i due paesi. Da parte sua, Putin incaricava il governo di avviare colloqui con Ankara per la ripresa della collaborazione in vari ambiti, soprattutto economici e già a fine luglio si concretizzavano i primi contatti ministeriali a Mosca, in cui il Ministro per lo sviluppo economico Aleksej Uljukaev pronosticava la fine dell’embargo russo sui prodotti agro-alimentari turchi già dopo l’incontro tra Putin ed Erdoğan.

Parlando con il vice direttore della Tass, Erdoğan ha accusato l’Occidente di pregiudizi verso la Turchia e ha dichiarato che “sulla questione del rispetto e della garanzia dei diritti umani e della libertà, la Turchia non ha bisogno di paragoni coi paesi della UE”, forse avendo in mente che sono questi ultimi che stanno velocemente scendendo a livello turco. “Per qualche ragione” ha detto Erdoğan, “l’Occidente sta invertendo i concetti, alludendo agli sforzi turchi per cambiare il proprio carattere laico. Ma non è così. La UE ci sta seccando da 53 anni. Dovrebbe rinunciare alla politica del doppio standard”.

Al di là delle affermazioni di Erdoğan, gli osservatori notano come, dallo scorso novembre a oggi, si siano accumulate molte questioni insolute tra Mosca e Ankara, specialmente di carattere regionale e raccomandano attenzione nei suoi confronti. Anna Glazova, direttrice del Centro Asia e Vicino Oriente dell’Istituto russo di ricerche strategiche, si dice convinta che il presidente turco, sullo sfondo del peggioramento dei rapporti con la UE, “tenterà di condurre un doppio gioco, dichiarandosi amico della Russia”. Le parole sull’amicizia con Mosca, sostiene Glazova, saranno dirette alla Russia, perché l’Europa intenda che “deve smetterla di criticare la dirigenza turca, se non vuol ritrovarsi di fronte a nuovi problemi”, come il flusso di migranti diretti verso la UE. Con questi argomenti, Ankara tenterebbe di ricattare Bruxelles, esigendo soldi aggiuntivi ai 3 miliardi di euro fino al 2018 e agli altri 3 miliardi fino al 2020.

Tra le questioni irrisolte, Glazova ricorda “la situazione in Siria, in cui Mosca conta sull’appoggio della Turchia nella lotta al terrorismo. Avendo avuto a che fare con un’ondata di terrore in casa propria, la leadership turca potrà mostrarsi pronta a qualche concessione: in particolare, lasciare al potere per qualche tempo Bashar Assad. Ma la cosa più importante: chiudere il settore del confine turco-siriano a ovest dell’Eufrate, attraverso cui transita una quantità enorme di terroristi e di armi”. Un’altra questione importante, è quella della “sicurezza regionale nell’area del mar Nero e nel Caucaso, compreso il problema del Nagorno-Karabakh” su cui, da sempre, Ankara è schierata fattivamente con l’Azerbajdzhan e in cui non sarebbe estranea alla ripresa delle ostilità. Sul fronte dei rapporti economici, a parte l’enorme mancato introito per Ankara rappresentato dal turismo russo, ai colloqui di domani verranno probabilmente affrontati i temi del “Turkish Stream” e della costruzione della centrale nucleare di “Akkuju”: credo che la nostra leadership, ha dichiarato Glazova, “starà ora più attenta a impegnarsi direttamente in progetti che, da un momento all’altro, potrebbero saltare”.

Tra l’altro, venerdì scorso, in un colloquio telefonico tra Putin e il primo ministro bulgaro Bojko Borisov, sarebbe stata ventilata la possibilità di una ripresa del progetto di gasdotto “South Stream” (attraverso Bulgaria, Serbia, Ungheria e da qui verso l’Europa occidentale), abbandonato da Sofia nel dicembre 2014 per le ripetute pressioni di Washington e Bruxelles, dopo di che furono avviati i progetti sul “Turkish Stream”, bloccato anche questo dopo l’abbattimento del Su-24.

In ogni caso, l’avvicinamento tra Ankara e Mosca è seguito attentamente da Washington e dalla Nato, preoccupate che un segmento essenziale dell’Alleanza atlantica nella regione sudorientale possa sbilanciarsi verso est.

Da questo punto di vista, sul piano regionale, Gajaz Validi, intervenendo su eadaily.com, torna sulla questione dei mancati colpi di stato a Istanbul e Erevan, di alcune sillogie antirusse comuni ai golpisti e del preoccupante possibile sbocco comune delle due azioni: la trasformazione della regione caucasica nel centro di un conflitto su vasta scala. Nel caso turco, accanto all’orientamento fondamentalmente filo USA e filo UE di gran parte dell’esercito, scrive Validi, c’è un Erdoğan che non può già più dichiararsi apertamente nemico della Russia; un Erdoğan cui costerebbe caro mostrarsi troppo aggressivo nei confronti della UE e un presidente turco che si mostrerebbe suicida a farlo con Washington. Il caso armeno è altrettanto complicato: i golpisti incolpano il governo di svendita degli interessi nazionali nella questione del Nagorno-Karabakh, uccidono poliziotti, tengono ostaggi e, invece di venir sloggiati a fucilate, ricevono dal governo l’invito al dialogo e la promessa di giudicare gli assalitori “con la massima dolcezza”. Secondo Validi, a questo punto Erevan non può far altro che, effettivamente, irrigidire le proprie posizioni sulla questione del Nagorno; questione su cui anche il presidente azero Ilkham Aliev ha buon gioco a stringere la gente intorno a sé, a dispetto dei problemi economici interni e, sia per Aliev, che per Erdoğan, la guerra nel Nagorno sarebbe solo vantaggiosa. Resta il fatto che questa potrebbe essere solo benzina gettata su una fiammella apparentemente innocua e localizzata, fuori dai confini europei e lontana dagli Stati Uniti, ma in cui Mosca potrebbe venir gioco forza attirata.

Questo, sostiene Validi, sarebbe il comune denominatore degli avvenimenti di Istanbul e di Erevan: Russia e Turchia verrebbero di nuovo trascinate in una situazione di “falso status di partner e diretto confronto bellico”; l’Europa sarebbe investita da nuove ondate migratorie; l’unico a guadagnarne sarebbe Washington. In fin dei conti, prove concrete di intervento USA non ci sono, conclude Validi: “tutto inizia con strani colpi di stato che sono la continuazione uno dell’altro a Kiev e Tbilisi, al Cairo e Damasco, Istanbul e Erevan. Gli americani raccolgono solo i frutti”.

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