Sibel Güler è una giornalista kurda che, come altri colleghi, ha subìto limitazioni della professione e arresti da parte del governo Erdogan dal 2011. E’ stata redattrice e, per un periodo, direttrice della testata Özgür Gündem, chiusa nell’agosto scorso dall’attuale premier Yıldırım. L’accusa rivolta al gruppo di cronisti di cui fa parte Güler (media e agenzie sono: Azadiya Welat, Özgür Gündem, Diha, Anf, Fırat Dağitim, Demokratik Modernite) è quella d’essere membri del Comitato Stampa dell’Unione delle Comunità kurde (Kck). Quest’organismo viene accusato dalla Stato turco di sostenere il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, posto dal 2001 nella lista delle organizzazioni terroriste stilata da Stati Uniti e Unione Europea. Per similitudine i giornalisti in questione vengono tacciati di terrorismo. Dopo un lungo periodo di detenzione Güler è stata rilasciata, è in attesa del processo, ma non può più svolgere il suo lavoro. Dal 15 luglio scorso le è stato ritirato il passaporto con la motivazione di “essere pericolosa per l’indivisibile unità della Turchia”.
Sibel, ti senti una perseguitata da Erdoğan?
Sì, lo sono. Mi sento perseguitata non solo come giornalista, ma come donna kurda che non gradisce Erdoğan. Lui e il suo partito (Akp, ndr) sostengono l’idea di una nazione, una lingua, una religione. Adottano una politica neoliberale. Chiunque sia in disaccordo con questa visione diventa un bersaglio. Gli avversari (kurdi, socialisti, aleviti, le donne, la comunità LGBTI, e poi accademici, insegnanti, giornalisti, ecologisti) non possono usare la libertà di parola. Siamo arrestati, lasciati senza lavoro, mentre le minacce pendono su di noi come una spada di Damocle. Persino la gente comune si sente in pericolo. Perché Erdoğan e l’Akp costruiscono l’impero della paura. Ora, stanno strumentalizzando il tentativo di golpe del 15 luglio e tramite lo stato d’emergenza e decreti statutari terrorizzano il Paese. Così, noi tutti ci sentiamo perseguitati.
Quali sono le imputazioni a carico tuo e dei tuoi colleghi?
Io e 43 amici giornalisti siamo finiti il galera il 20 dicembre 2011. Allora 36 di noi vennero arrestati con l’accusa di essere membri dell’Unione delle Comunità Kurde e del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Siamo stati rilasciati dopo due anni e mezzo. Il caso è tuttora aperto presso la Corte, che ci accusa di sostenere il Pkk attraverso il lavoro d’informazione. In più la Corte considera illegale il lavoro di raccolta di notizie compiuto tramite i nostri viaggi all’estero. Faccio un esempio, cosicché i lettori in Italia possano comprende lo scandalo di simili accuse. Una mia amica scrisse una citazione di Adorno sull’agenda. Per questa frase è stata accusata di essere una sostenitrice del Pkk. Secondo la Corte, Adorno è un membro del Pkk. (Sibel ride) Ancora: un mio viaggio in Germania nell’aprile 2003 viene scambiato per un viaggio in Iraq sebbene fosse evidente sul mio passaporto la destinazione tedesca. L’atto d’accusa è pieno di lacune e chiede una pena che va dai 7 ai 25 anni di reclusione. Sostengono che nel 2001 sia andata in montagna col Pkk, ma non hanno prove. Io invece mostro documenti dell’Università di Istanbul e di altri organismi, compresi quelli del distretto di polizia che mi rilasciava passaporti e carte d’identità, che testimoniano la mia presenza in Turchia, non sulle montagne irachene. La prossima udienza è fissata per il 18 novembre. Poiché il governo ha destituito migliaia di giudici a causa del tentativo di golpe, nessuno sa cosa può accadere. Sapete cosa c’è di comico? Tutti i pubblici ministeri e giudici che ci hanno arrestato e ci stavano giudicando ora sono in prigione per quel tentativo antistatale…
Che ne è del tuo quotidiano, Özgür Gündem, o di Cumhuriyet ?
Cumhuriyet è ancora in attività. Invece il governo ha chiuso Özgür Gündem perché è una testata kurda. Attualmente i giornalisti kurdi dissidenti pubblicano un nuovo giornale chiamato Özgürlükçü Demokrasi.
Chi sta raccontando al mondo ciò che accade in Turchia dall’interno del Paese?
I giornalisti che resistono all’Akp. Malgrado tutte le pressioni abbiamo media alternativi come quello citato poc’anzi, l’agenzia Diha News, l’agenzia Eta, Evrensel, IMc Tv e altre. Il regime può chiuderle ma noi pubblichiamo ancora, proseguiamo con diciture diverse e usiamo internet efficacemente.
I media ufficiali (canali televisivi, quotidiani come Hürriyet) riescono a raccontare la realtà liberamente?
Tutti i media mainstream sono interdetti agli oppositori. Lì non si trova neppure una parola sulla violazione dei diritti umani da parte di Erdoğan e del partito di governo o si leggono distorsioni di notizie sugli avversari. Solo i media alternativi offrono informazioni e pubblicano articoli su ciò che realmente accade. Ma si vede il risultato: giungono arresti, chiusure, blocco della diffusione.
Solo Amnesty International e Human Rights Watch denunciano la repressione alla libera stampa turca…
Lasciami aggiungere Reporters Without Borders e la Federazione Internazionale dei Giornalisti.
Gli oppositori moderati al regime, come il Chp, sono prostrati a Erdoğan?
Chp è prostrato davanti all’Akp perché questo partito è stato volutamente ingannato dalla disperazione che era frutto della tacita paura. Il Chp ha visto che l’Akp avrebbe usato l’apparato statale contro l’opposizione, esacerbando i poteri in stato d’emergenza dopo il tentato golpe. E d’altro canto dopo lo shock il partito di governo aveva bisogno di nuove alleanze per risollevare il senso nazionale. Così l’Apk ha avvicinato i kemalisti nella sfera politica, burocratica e militare per un’alleanza adeguata e mandataria, e ha creato l’illusione di ‘un’unità nazionale’. I repubblicani si sono inchinati verso quest’illusione e perché comunque erano preoccupati di finire fra i bersagli del terrore scatenato dal governo. Un’altra ragione o per meglio dire un loro piano: il partito di maggioranza avrebbe sgombrato il campo da avversari e, grazie all’unità nazionale, non avrebbe toccato il Chp. Dopo la liquidazione delle opposizioni, i repubblicani pensano di essere l’unica alternativa all’Akp.
Un anno e mezzo fa avevi paragonato il comportamento del presidente turco a quello d’un bambino capriccioso. E ora?
Continuo a pensarlo: ciò che accade è un naturale proseguimento di quei comportamenti. La tradizionale struttura conservatrice della Turchia anela costantemente l’Impero Ottomano, ma la realtà del mondo e del Medioriente non offre il disco verde a questo piano. Stati Uniti, Russia, Europa e pure forze regionali come Iran e Arabia Saudita non accettano una simile politica. Eppure l’utopia di Erdoğan, passo dopo passo, chiede di regredire. Un anno fa e mezzo fa Erdoğan ruggiva e reclamava d’essere il leader del Medioriente? Osserviamo l’orizzonte attuale: lui vuole solo mantenere il vecchio peso politico nella regione e segue una strada che si è ristretta, focalizzata sul fermare i kurdi.
Quanto può risultare vincente il nazionalismo che Erdoğan mutua dal kemalismo, socialdemocratico o fascista?
Il nazionalismo è uno strumento pratico per Stati come la Turchia. Lo è nelle crisi economiche, politiche, giudiziarie, militari. Però, com’è risaputo, somiglia a un cattivo medicamento che peggiora le cose. In questa fase tre tipi di nazionalismo (kemalista, conservatore, fascista) s’incontrano tatticamente contro le classiche opposizioni (le differenze sociali in particolare i kurdi e le forze straniere contro lo Stato turco). Ma le basi sociali di quest’alleanza – i gruppi di capitale e le Ong – sono differenti e fra loro esistono conflitti d’interesse. Questi non consentono all’alleanza di risultare strategica. Di conseguenza chi sarà in grado di effettuare manovre intelligenti potrà ottenere guadagni periodici (in tal gioco l’Akp è in vantaggio). Tuttavia tale situazione non evidenzia in maniera permanente un insediamento forte né per lo Stato né per la società. Al contrario nascondere questioni strutturali (democrazia, leggi, pace sociale, ecc.) che devono obbligatoriamente esser risolte, le riduce in cancrena. E a medio termine la situazione potrebbe dover affrontare un problema esistenziale.
La repressione mette insieme kurdi, gülenisti, marxisti, considerati tutti terroristi…
Normalmente le pressioni autoritarie avvicinano gli oppositori. Seppure la posizione dei gülenisti dev’essere esaminata differentemente. La loro tradizionale ideologia è basata sulla sintesi turco-islamica e si riflette contro kurdi e socialisti con ostile aggressività. Kurdi e socialisti lo sanno bene. Ci potrebbe essere interazione sociale, azioni simboliche in quella base sociale infastidita dall’autoritarismo. Ma, dopo il 15 luglio, la base sociale gülenista è messa fuorigioco. Le relazioni fra marxisti o gruppi della sinistra e i kurdi pongono due diverse riflessioni. La prima: dal 1980 c’era sempre stata una collaborazione fra queste componenti e, per quanto si può discutere sull’efficacia del rapporto, la collaborazione continuerà. La seconda riflessione riguarda un nesso fra kurdi e alcuni socialisti che tollerano influenze kemaliste. Questa tipologia socialista è adirata col Chp e con quella parte repubblicana compromessa con l’Akp. Tuttavia proprio per le priorità sociali e politiche, non penso che questi socialisti creeranno un’alleanza coi kurdi. Invece pressioni autoritarie possono sì obbligare gruppi socialisti a collaborare coi kurdi, se ciò non dovesse accadere molti di loro non potrebbero proteggersi.
Riaprendo la lotta armata il Pkk azzera la strategia dei colloqui attuata da Öcalan?
Una dura guerra in Turchia esiste già. E non è iniziata perché il Pkk ha chiuso gli spazi alla strategia di Öcalan. La guerra è ricominciata perché lo Stato turco, verso cui è indirizzato il piano di Öcalan, non fa nulla per attuarlo. Se il Pkk vedesse qualcosa di positivo nelle attitudini del governo di Ankara, non penso che continuerebbe a usare le armi. Questi militanti l’hanno dichiarato molte volte.
Taluni analisti smentiscono l’idea d’una diversa prospettiva fra il Confederalismo Democratico di Öcalan e il separatismo inseguito da altri membri del Pkk. E’ così?
Il Confederalismo democratico è un sistema per ogni tipologia di alternativa: autonomia, federazione, separazione… Perciò se nel Pkk esistono differenti approcci, non riguardano il Confederalismo Democratico. Il Pkk crede che tale modello sia la migliore alternativa per tutte le componenti del Kurdistan e per altri popoli senza una separazione dalla realtà mediorientale. Se la questione kurda non può essere risolta unitariamente allora, fra le diverse ipotesi, c’è anche la separazione. Il Pkk l’ha ripetuto parecchie volte, però non c’è nessuna recente dichiarazione che pone quest’opzione. Inoltre non abbiamo notizie di una profonda discussione sul tema all’interno del Pkk. Se in quel partito esiste un dibattito credo riguardi i momenti delle differenti alternative. Macro analisi a parte, abbiamo bisogno di riflettere su questa realtà: se da qualche parte c’è un conflitto duro, continuo e dagli alti costi, la gente coinvolta perde la fede nei metodi pacifici. Questo è un fatto concreto.
E il percorso del Partito democratico del popolo (Hdp) è alternativo alle prospettive del Pkk ? Perché Demirtaş non respinge apertamente l’accusa evitando d’essere considerato un fiancheggiatore?
L’Hdp non valuta il Pkk come fa lo Stato turco, può solo rigettarne metodi e strumenti di lotta. Il Partito democratico del popolo reclama da tempo la cessazione della lotta armata e condanna gli attentati del Pkk, però non descrive il Pkk come un’organizzazione terrorista. Se lo facesse si sparerebbe sui piedi poiché la base sociale dell’Hdp crede nel Pkk. E Demirtaş non vuole perdere la base del partito. La distinzione fra i due soggetti è procedurale. La principale differenza riguarda, appunto, la scelta della lotta armata. Oltre quest’aspetto non c’è contrasto ideologico nei reciproci programmi, sebbene si riscontri qualche differenza sulla soluzione di questioni sociali.
I combattenti del Rojava sono passati dall’assedio dell’Isis a Kobanê alle operazioni ostili dell’esercito turco a Manbij. Quale futuro può avere il progetto del Rojava in un ridisegno della Siria?
La lotta in Rojava ha posto l’esistenza e la valutazione dei kurdi al cospetto del mondo. Ha legittimato e reso visibili le richieste sociali della comunità che finora erano rimaste ignorate. Si tratta di un punto di non ritorno. Tuttavia il bilancio del Medio Oriente che lavora contro i kurdi e la lotta per il potere in quell’area non allontanano i rischi per questo popolo. Diversamente da cent’anni fa, i kurdi sono organizzati in un’ampia fascia territoriale e hanno la consapevolezza di poter raggiungere degli obiettivi con le loro forze. Essi non sono più una comunità da sprecare facilmente nei rapporti di forza internazionali, alla luce della situazione mediorientale si rivelano come una società che non dev’essere ignorata. Malgrado le obiezioni militari e politiche mosse da Stati arabi, Turchia, Iran i kurdi del Rojava avranno uno statuto, ovviamente se essi stessi non avanzeranno critiche. Questo statuto è legato al destino futuro della Siria.
Enrico Campofreda, 27 settembre 2016
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