Migliaia di yemeniti stanno manifestando da domenica davanti agli uffici di rappresentanza delle Nazioni Unite a Sana’a, capitale del paese, per denunciare l’enorme massacro compiuto dai caccia sauditi che l’otto ottobre scorso hanno sganciato le loro bombe su un funerale uccidendo circa 155 persone. La protesta, significativamente battezzata "Vulcano della collera", è stata organizzata dai ribelli sciiti che controllano il nord del territorio yemenita, ma vi hanno partecipato anche altre fazioni politiche e comunità. Alla celebrazione funebre del padre del ‘Ministro degli Interni’ del governo ribelle erano infatti presenti influenti membri di numerosi clan. L’ex presidente Ali Abdallah Saleh, sunnita ma alleato degli Houthi e con un largo seguito nelle forze armate, ha chiesto in un discorso in tv che i “figli della nazione rispondano a questa aggressione con tutta la loro forza”.
"Auguriamo una rapida ripresa a tutti i feriti", ha detto George Khoury, responsabile dell'Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell'Onu in Yemen. "Ma ribadiamo con estrema fermezza che le violenze nel paese devono cessare. I civili devono essere protetti. Gli yemeniti hanno già sofferto sin troppo". Peccato che l’Onu ha concesso un’ampia copertura politica alle ingerenze saudite nel paese di fatto concedendo carta bianca al regime di Riad che, non essendo riuscita a rimettere del tutto in sella il governo fantoccio destituito dai ribelli Houthi tramite una feroce e lunga campagna di bombardamenti, ha poi deciso di invadere il paese con le sue truppe, avvalendosi dell’attiva collaborazione di altri paesi del blocco sunnita.
In un anno e mezzo di guerra – iniziata nel marzo del 2015 – i morti e i feriti sono stati decine di migliaia, gli sfollati milioni ed intanto il paese è stato ridotto allo stremo: secondo i dati forniti ad agosto dall'Alto commissario Onu per i diritti umani, mentre 7,6 milioni di persone soffrono di denutrizione oltre 3 milioni hanno dovuto lasciare le loro case.
A fare il numero più alto di vittime gli indiscriminati bombardamenti dell’aviazione saudita e di quella delle altre petromonarchie, come quello che pochi giorni fa ha fatto strage di yemeniti durante un funerale.
Inizialmente l’Arabia Saudita ha declinato ogni responsabilità per l’accaduto, promettendo l’apertura di un’inchiesta ufficiale per chiarire le dinamiche della mattanza. Peccato che nel paese è solo l’aviazione della cosiddetta ‘coalizione araba’ guidata da Riad a compiere raid aerei, e che secondo l'emittente britannica ITV News – che pubblica sul suo sito web una foto che mostra il frammento di una bomba trovata sul luogo della strage – il missile sparato da un aereo sarebbe di fabbricazione statunitense. Peccato anche che a indagare sulle eventuali responsabilità dell’aviazione saudita dovrebbero essere degli esperti provenienti da un paese, gli Stati Uniti, che seppur obtorto collo ha fornito non solo copertura politica ma anche logistica e militare alla campagna militare saudita nello Yemen. Da Washington i portavoce della Casa Bianca hanno fatto sapere di deplorare l’accaduto e di voler contribuire a far luce sull’eccidio, costato la vita a molte decine di civili, oltre che a un gran numero di esponenti politici e militari della ribellione. Quale “esperto” statunitense inguaierebbe Washington, che fin dall’inizio della cosiddetta “operazione Tempesta Decisiva” ha fornito a Riad armi e munizioni, sostegno logistico e tecnologico?
Dopo la strage, sia gli Stati Uniti che il Regno Unito hanno affermato di non essere più disposti a “concedere un assegno in bianco sulla sicurezza” al loro alleato/competitore. La verità è che alla Casa Bianca temono che il sangue versato dai sauditi in Yemen possa in qualche modo lambire Obama e i suoi collaboratori, esponendoli ad accuse di crimini di guerra o comunque alla possibilità di ricadute di tipo giuridico per il sostegno accordato al blocco sunnita. Al di là di qualche eventuale dichiarazione di circostanza e di qualche escamotage, difficilmente la posizione di Washington cambierà.
Finora, riferisce ancora il quotidiano britannico Guardian, Londra ha venduto a Riad armi per oltre 3,7 miliardi di sterline. Negli Usa è stato bocciato la scorsa settimana un progetto di legge che bloccava una vendita di armi a Riad per 1,5 miliardi di dollari. Un enorme affare, in corso nonostante le forti tensioni tra Washington e la monarchia saudita provocate dall’accordo siglato da Washington con l’Iran e rinfocolate dall’approvazione, da parte del parlamento statunitense, di una legge che permette di citare in giudizio e di chiedere risarcimenti ai dirigenti sauditi accusati di aver collaborato agli attacchi contro New York e Washington nel 2001.
Da parte loro gli Houthi hanno deciso di prendere di mira proprio gli Stati Uniti. Due missili sono stati lanciati dal territorio yemenita controllato dai ribelli sciiti verso un cacciatorpediniere Usa, lo Uss Mason. I media sauditi hanno anche parlato di un altro missile sparato domenica dallo Yemen che aveva come apparente bersaglio una base aerea vicina alla Mecca – quella intitolata a Re Fahd a Taif – che ospita militari statunitensi. L’attacco è il più profondo tra quelli finora compiuti dagli Houthi in territorio saudita – anche se non avrebbe causato vittime – arrivando a più di 500 chilometri dal confine.
Marco Santopadre
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