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Le presidenziali Usa viste da Mosca

Metà dei russi considera una minaccia reale la possibilità di un conflitto su larga scala tra Nato e Russia, mentre il 40% è del parere opposto. Questi i risultati di un'indagine del Fondo “Opinione pubblica”, secondo cui il 43% degli intervistati ritiene che il pericolo di guerra sia oggi più alto rispetto all'epoca di Leonid Brežnev, ma il 65% pensa che la politica russa attuale contribuisca alla riduzione del pericolo di scontro con la Nato.

Ma come si guarda, da Mosca, alle ultimissime fasi della disputa elettorale USA? Andrej Polunin, su Svobodnaja Pressa, commenta le dichiarazioni dell'ex ambasciatore USA a Mosca Michael McFaul, considerato stretto alleato della Clinton. In un'intervista al russo “Kommersant”, McFaul ha parlato delle prospettive di una ripresa delle relazioni russo-statunitensi in caso di vittoria del candidato “democratico” e ha posto l'accento sui seguenti punti: primo, la Clinton è pragmatica nel difendere gli interessi nazionali e degli alleati in materia di sicurezza ed economia; secondo, il ripristino delle relazioni con la Russia è possibile, ma solo se Vladimir Putin cambierà la sua politica. Vale a dire: se il presidente russo “dichiarasse che noi ritiriamo i separatisti dalla parte orientale dell'Ucraina e ripristiniamo i suoi confini, ciò avrebbe un impatto estremamente positivo sulle relazioni USA-Russia". McFaul ha solo mancato di chiedere a Putin di consentire l'atterraggio di un paio di divisioni aviotrasportate USA alla periferia di Mosca: un passo che Hillary Clinton, forse, accoglierebbe come di buon auspicio per prendere in considerazione l'eventualità di alleggerire le sanzioni antirusse.

Anche sul teatro siriano, a detta dell'ex ambasciatore yankee, non è escluso che, all'entrata in carica della Clinton, Washington non decida di prendere più aperta posizione per la cosiddetta “opposizione” siriana. Quanto all'Ucraina, sarebbe ancora aperta la discussione sulla fornitura di armi letali a Kiev: una decisione, in ogni caso, di competenza del Congresso e non del presidente e su cui, comunque, si dà per scontato l'allineamento delle posizioni presidenziali su quelle dell'attuale vice presidente e (quasi) sicuro futuro segretario di stato, “l'ucraino” Joe Biden.

Da parte russa, invece, il costituzionalista Nikolaj Topornin giudica possibile una ripresa delle relazioni bilaterali soltanto dopo le elezioni presidenziali russe del 2018 che, a suo dire, vedranno uscire vincitore Putin per la quarta volta. Secondo Topornin, Vladimir Vladimirovič, nel suo ultimo mandato presidenziale, potrebbe ricalcare le orme dell'ultimo periodo brežneviano, allorché si giunse ai più importanti accordi sovietico-americani sulla riduzione delle armi strategiche (1972) e agli accordi di Helsinki (1975). In ogni caso, conclude Topornin, non c'è assolutamente da aspettarsi un cambio di politica USA con l'entrata in carica della Clinton: le decisioni, soprattutto in politica estera, non vengono prese alla Casa Bianca.

A parere del politologo Viktor Olevič, un nuovo avvio delle relazioni Mosca-Washington, potrà aversi solo se l'iniziativa partirà dalla Russia e solo se il Cremlino “farà concessioni significative agli Stati Uniti, dato che la Clinton non è assolutamente pronta a fare concessioni. Cioè, se Mosca capitolerà: lascerà la Siria, rinuncerà all'appoggio politico, economico e umanitario a DNR e LNR, rinuncerà ad alcuni propri territori, a cominciare dalla Crimea”.

Ed è chiaro dunque come a Kiev si preghi per la vittoria della candidata “democratica” e per il suo sperato sostegno finanziario alla disastrata situazione economica ucraina; la vittoria di Trump potrebbe dirottare infatti gli interessi yankee su altri fronti mondiali. Peccato che nessuno, scrive Jurij Gorodnenko, ancora su Svobodnaja Pressa, ricordi come i “democratici” Porošenko, Timošenko e Jatsenjuk, nel 2008, pregassero per una vittoria repubblicana e, nonostante la presidenza Obama, il loro contributo alla “democrazia” tornasse poi utile a Washington nel 2013-2014. Ma, ricorda Gorodnenko, il nobel per la pace Obama ha finito per giocare, nella storia dell'impero USA, lo stesso ruolo avuto da un altro premio nobel per la pace nella fine dell'era sovietica: lo stesso entusiasmo al momento dell'elezione a presidente del primo e nella nomina a gensek del PCUS del secondo. Come le prime parole di Obama fecero gridare di entusiasmo per le scelte “democratiche” e addirittura “socialiste”, così le scelte di Gorbaciov diedero speranze alla società sovietica in un rafforzamento delle basi del sistema socialista. Come gli atti in materia “sociale”, “sindacale”, “assistenziale” di Barack Obama hanno contribuito alla scalata di corporation, studi legali, compagnie assicurative, così trenta anni fa gli atti sulle imprese statali in Urss aprirono la strada al potere assoluto dei direttori di azienda, al loro sterminato arricchimento, all'estraniazione di ogni diritto da parte dei collettivi di lavoro e alla distruzione del principio base del sistema socialista: la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. In tutti e due i casi, scrive Gorodnenko, il crack economico e sociale interno non ha lasciato a l'uno e all'altro che passi pericolosi in politica estera: il “processo di pace con l'Occidente” per Gorbaciov, il golpe in Ucraina, la guerra in Siria e le sanzioni con la Russia per il nobel per la pace 2009.

In ogni caso, conclude Gorodnenko, nessun presunto scenario si presenta roseo per i golpisti di Kiev: la probabilità più forte è che i paesi che non rappresentano un forte interesse strategico immediato per Washington vengano lasciati alla propria sorte. Non è un caso, forse, che l'ex presidente georgiano e, nell'ultimo anno e mezzo, governatore ucraino di Odessa, il più fervente yankee postsovietico, Mikhail Saakašvili, abbia pensato bene di abbandonare la poltrona e il carro presidenziale proprio alla vigilia delle elezioni USA.

 

Fabrizio Poggi

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