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L’urlo dell’Etiopia contro la repressione. Domenica iniziativa a Roma

Dal 9 ottobre scorso il governo dell'Etiopia ha dichiarato lo stato d'emergenza con effetto immediato. La decisione è stata presa in seguito alle proteste antigovernative sfociate in scontri che hanno provocato diverse centinaia di morti tra i manifestanti, soprattutto appartenenti alla etnia Oromo, la più numerosa del Paese. Già ad agosto le forze di sicurezza del governo avevano ucciso una novantina di persone nelle regioni centro-occidentali dell’Oromia e nell’Amhara, dove risiedono le due più grandi etnie, che rappresentano due terzi della popolazione etiopica. Mentre migliaia di manifestanti erano stati arrestati nella capitale Addis Abeba. Secondo Amnesty International i morti, negli ultimi 12 mesi, sono stati almeno 800.

Le prime proteste sono cominciate nella regione di Oromia, in particolare contro il progetto del nuovo piano regolatore della capitale Addis Abeba che intendeva estendere il controllo amministrativo della città su parte di Oromia. Nel gennaio di quest’anno, il progetto è stato annullato. Le proteste sono però proseguite, questa volta con l’obiettivo di porre fine alla complessiva situazione di emarginazione degli oromo e la liberazione dei prigionieri politici. “La popolazione protesta contro l’accaparramento dei terreni (il famigerato land grabbing) e chiede risarcimenti adeguati. Le elezioni sono state truccate, il costo della vita aumenta in continuazione e diventa sempre più difficile il sostentamento della famiglia” denuncia Merera Gudina, leader  del “Oromo People’s Congress”.  “Il governo non ha nemmeno tentato una mediazione, nessuna proposta di dialogo con gli oppositori o rappresentanti del popolo. L’unica risposta che abbiamo ricevuto sono state pallottole, repressione” ha affermato l’esponente dell’opposizione. Il regime etiope accusa i vicini Egitto ed Eritrea con il quale esistono storici e nuovi contenziosi territoriali di sobillare la rivolta nel paese. L’Eritrea di fatto blocca lo sbocco al mare dell’Etiopia mentre con l’Egitto si va alzando la tensione sul corso del Nilo e quindi su una delle maggiori riserve di acqua dolce dell’intera Africa. Il regime etiope accusa esplicitamente l’Egitto di sostenere il Fronte di Liberazione Oromo. Il Fronte, si è ritirato dal governo dell’Etiopia nel giugno del 1992 ed è fortemente rappresentativo delle rivendicazioni degli Oromo, almeno delle loro ragioni politiche e territoriali.

Appare quasi superfluo sottolineare che l'Italia ha storicamente e attualmente enormi responsabilità sulla situazione in Etiopia. Occupata militarmente durante il fascismo, la ex colonia ha sempre mantenuto forti relazioni con l'Italia. Relazioni economiche accresciute dopo la caduta di Menghistu. Nei primi sei mesi di quest'anno l'import/export tra Italia ed Etiopia ha superato i 200 milioni di euro, l'85% sono esportazioni italiane in particolare di prodotti di meccanica strumentale.

La comunità etiope in Italia ha organizzato per oggi un pranzo sociale al centro “Gerini” (via Tiburtina 994) per informare sulla situazione e raccogliere fondi a sostegno dell’informazione indipendente in Etiopia. Qui di seguito una lunga lettera aperta inviata al governo italiano.

CONTRO LA DITTATURA DEL REGIME ETIOPE
Lettera appello della Comunità etiope in Italia al Ministero degli Affari Esteri

Roma, 13 ottobre 2016

Da novembre 2015 ad oggi l’Etiopia è scossa dalle violente repressioni della polizia federale che agendo per conto del Governo hanno provocato la morte di oltre 700 persone. Le proteste nascono dall’ennesimo tentativo di furto delle terre migliori intorno alla capitale Addis Abeba ai danni della popolazione Oromo che da anni ormai vede le proprie risorse naturali depredate e conferite ad aziende spesso occidentali. Le espropriazioni che hanno sottratto centinaia di migliaia di ettari di terreno avvengono senza alcun rispetto per le popolazioni locali che all’occorrenza vengono forzosamente riallocate e molto spesso più semplicemente sterminate. Questo è il sistema economico che dichiara una crescita del 10% annuo e che l’Italia considera oggi un’opportunità strategica per i propri affari grazie ad alcuni fattori fondamentali che anche voi avete facilmente individuato.
La stabilità politica.
L’Etiopia è uno stato federale diviso su basi etniche governato fin dal 1991 da una coalizione elettorale (Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front ) che dovrebbe formalmente garantire l’espressione delle diversità che compongono la nazione. In realtà all’interno della coalizione è il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè che rappresenta la minoranza tigrina ad esercitare il peso maggiore a discapito delle altre comunità in particolare Oromo e Amhara che invece sono la maggioranza della popolazione etiope. La cosiddetta stabilità politica è uscita indenne anche dalle ultime “democratiche” elezioni che all’ultima tornata di maggio scorso hanno consegnato la vittoria alla stessa coalizione da 25 anni al governo con il 99,6% dei voti. La campagna elettore è stata all’insegna del dialogo e del confronto politico e ha visto l’incarcerazione illegale di tutti gli oppositori politici, dei giornalisti, degli studenti e la repressione delle pacifiche manifestazioni in sostegno della libertà di espressione e dell’autodeterminazione attraverso mezzi quali le cariche della polizia, spari ad altezza uomo e centinaia di desaparecidos. La stabilità politica tanto cara ai vostri investitori è costata a noi centinaia di morti e decine di migliaia di arresti.
Le fonti energetiche.
L’Etiopia è terra di alte montagne e grandi fiumi. Quale affare migliore che non la costruzione di grandiose dighe per la produzione di energia idroelettrica. Ne sa qualcosa la vostra Salini-Impregilo che si è cimentata nella costruzione della diga Gibe III il cui cantiere è stato visitato dal vostro Presidente del Consiglio Matteo Renzi a luglio 2015. La diga, importante prodigio dell’industria, italiana ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume Omo, da cui 100.000 indigeni dipendono direttamente per abbeverare le loro mandrie e coltivare i campi, mentre altri 100.000 vi dipendono indirettamente. Secondo gli esperti, la diga potrebbe anche segnare la fine del Lago Turkana – il più grande lago in luogo desertico del mondo – con conseguenze catastrofiche per altri 300.000 indigeni che vivono intorno alle sue sponde. Ma di tutto questo l’Italia non se n’è curata nonostante Survival International avesse presentato un’istanza all’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) contro la ditta italiana attualmente impegnata anche nella realizzazione di un’altra diga Grand Ethiopian Renaissance Dam Project che andrà a sbarrare il Nilo Blu. Ovviamente di queste discusse realizzazioni i beneficiari sono solo ed esclusivamente i membri del regime etiope (gran parte dell’energia prodotta viene venduta ai paesi confinanti) mentre per le popolazioni resta solo la devastazione dei propri territori, l’emigrazione ed un futuro di miseria.
L’accesso alla terra.
Terre fertili e facilmente raggiungibili da collegamenti aerei intensi. Terre facili da ottenere in cambio di un pugno di dollari (circa 9 dollari l’anno per avere un ettaro di terreno) tanto più che ufficialmente per le imprese che le “affittano” il governo garantisce per loro l’accettazione incondizionata della cessione da parte delle popolazioni indigene. E per chi non dovesse accettare scatta la ricollocazione forzata. Almeno 80.000 famiglie e circa mezzo milione di persone hanno subito questo trattamento. I Konso hanno visto i loro villaggi distrutti e bruciati assieme ai loro abitanti. Tutto questo per permettere ad aziende olandesi di produrre fiori o ad altre indiane la palma da olio.
Il basso costo del lavoro.
Spesso per restare nella propria terra ai contadini viene data la sola possibilità di lavorare per i nuovi proprietari. Il salario minimo giornaliero in Etiopia ammonta a 8 birr (0,64 dollari) – la metà dell’indice di povertà estrema definito dalle Nazioni Unite in 1,25 dollari/giorno – e la disperazione porta ad accettare lavoro anche per 1 birr (8 centesimi di dollaro). Nel manifatturiero i salari sono simili (circa 40$ al mese) e tanto convenienti che anche la Cina apre qui le sue fabbriche. Questo che è per voi un fattore incentivante per noi invece lo chiamiamo bestiale sfruttamento della popolazione, la stessa popolazione che vive degli aiuti alimentari del resto del mondo nonostante produca per voi ettari ed ettari di canna da zucchero, olio di palma e tanti prodotti che finiscono sulle vostre tavole.

Bene, questi ed altri “fattori fondamentali” sono solo alcune delle tante motivazioni che hanno portato l’interscambio commerciale con l’Italia fino a raggiungere 365 milioni di euro nel 2015. L’Italia è attualmente il 9° cliente e 5° fornitore a livello mondiale; il 2° partner commerciale, 1° fornitore e 3° cliente a livello europeo. Posizioni invidiabili se non fosse che tutto questo è reso possibile da una dittatura che da 25 anni opprime l’intera nazione e che in queste ultime settimane ha intensificato le azioni criminali contro il suo stesso popolo.
Domenica 2 ottobre scorso oltre 300 persone sono morte a Bishoftu dove si è svolta Ireechaa  un’importante festa che richiama ogni anno 2 milioni di Oromo. La polizia è intervenuta irresponsabilmente per interrompere i pacifici canti di libertà intonati dai presenti e lo ha fatto con spari e lanci di lacrimogeni dall’elicottero. Molti i morti provocati dalla calca, tanti quelli provocati dai proiettili. E’ da ricordare che il giorno dopo il Presidente della Repubblica Federale d’Etiopia è stato ricevuto al Quirinale dal vostro Presidente Sergio Mattarella con tanto di cerimoniale d’onore mentre nei giorni successivi questo assassino ha avuto modo di incontrare il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e anche il Ministro degli Affari Esteri Gentiloni senza che nessuno abbia mosso una sola obiezione al tanto gradito ospite.
La strage di Irreechaa fa seguito ai morti dell’ 6 e 7 agosto 2016 quando in oltre cinquanta città la più grande mobilitazione che l’Etiopia abbia mai conosciuto dalla fine della dittatura del DERG viene repressa con inaudita violenza dalla polizia federale e dai reparti militari. I morti sono oltre il centinaio e tra questi oltre a studenti giovanissimi anche donne in stato di gravidanza, bambini e anziani. Questa carneficina è all’origine del gesto di Feyisa Lilesa, l’atleta etiope di etnia Oromo che ha conquistato l’argento alla maratona alle ultime Olimpiadi di Rio, che, portando le braccia incrociate simbolicamente legate dalle manette, ha voluto denunciare al mondo i crimini della dittatura etiope.
Oggi gli eventi sono precipitati. Le proteste contro il regime sono in tutte le città e tutte le facoltà sono occupate dagli studenti. Tutte le etnie sono unite nel chiedere la fine dell’oppressione della minoranza tigrina, la fine della repressione, il ripristino dei diritti civili e la liberazione incondizionata di tutti i detenuti politici. Il popolo chiede inoltre la fine della dittatura con la quale ogni possibilità di dialogo è terminata dopo il massacro di Irrechaa del 2 ottobre. Il Paese intero è scosso dagli scontri tra i dimostranti e la polizia federale mentre interi reparti delle polizie statali hanno deposto le armi unendosi alla popolazione. Circa 300 imprese straniere tra fattorie e fabbriche sono state date alle fiamme e distrutte ritenendo queste causa primaria dello sfruttamento e i loro proprietari complici del regime.  Domenica 9 ottobre il governo etiope ha risposto nell’unico modo possibile ovvero dichiarando lo stato di emergenza per i prossimi sei mesi, legittimando così altre e più inquietanti azioni repressive e restringendo ulteriormente la possibilità di godere dei diritti fondamentali. Questa presa di posizione oltre a non intimidirci ha costretto il resto del mondo, finora piuttosto ipocritamente miope su quanto è successo nell’ultimo anno in Etiopia, ad aprire gli occhi sulle brutali azioni della dittatura. L’ONU che già aveva chiesto l’accesso di una commissione di osservatori indipendenti il 10 ottobre ha emesso un comunicato in cui Agnes Callaimard, relatrice speciale dell’ONU sulle esecuzioni sommarie afferma: “Siamo indignati per le accuse allarmanti di uccisioni di massa, migliaia di feriti, decine di migliaia di arresti e centinaia di sparizioni forzate". Passaggio questo fondamentale che testimonia la prese in carico del problema da parte dell’ONU.
Noi, Comunità di Etiopi residenti in Italia, chiediamo al Ministro Gentiloni di interrompere ogni forma di sostegno economico al regime etiope e di sospendere immediatamente ogni accordo commerciale in essere. Non è possibile che un Paese come l’Italia tragga profitto dallo sfruttamento degli Etiopi e della loro terra. Non possiamo più accettare che le nostre risorse naturali siano abusate per interessi economici stranieri e che il nostro popolo sia schiavo nella propria terra. Coloro i quali continueranno a fare affari con il governo etiope e con i suoi sodali continueranno a finanziare questo massacro e saranno da noi, Popolo etiope, considerati fiancheggiatori e complici. Prima ancora che l’Etiopia diventi come la Siria, prima che salga ancora il numero di morti chiediamo all’Italia di fermarsi e riflettere. Il punto di non ritorno è stato ormai superato e questo vergognoso regime ha i giorni contati. Adesso è il tempo di cambiare e che l’Italia di questo cambiamento sia la protagonista perché nel prossimo futuro non le siano precluse altre occasioni di collaborazione.
E’ bene che l’Italia condanni il dittatura etiope per la feroce repressione condotta contro un popolo pacifico e dia pieno sostegno alle iniziative dell’ONU per l’accesso immediato nel Paese di osservatori stranieri che possano accertare tutte le responsabilità.
Con la certezza che le nostre speranze non saranno disattese, ringraziamo  il Ministro per gli Affari Esteri Paolo Gentiloni per l’attenzione concessaci.

La comunità etiope in Italia

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