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Etiopia. L’apartheid del regime di Zenawi. Intervista a Mohammed Hassan

Mohammed Hassan è uno storico ed analista dei movimenti di lotta nella decolonizzazione. Ex ufficiale della componente progressista delle forze armate etiopi, da anni vive in Belgio dove svolge una costante attività di informazione e iniziativa sull'Africa e il Medio Oriente. Dal sito Resistenze.org riprendiamo questa intervista sulla situazione attuale in Etiopia.

Nel 1991, il tenente colonnello Menghistu viene rovesciato dopo diciassette anni di potere. Il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPLF) ha in gran parte contribuito alla caduta del dittatore combattendo l'esercito del Derg a fianco degli Eritrei. Questo movimento d'opposizione chiedeva allora l'indipendenza del Tigrè. Ma quando Menghistu fugge, Meles Zenawi, il capo del TPLF, si insedia ad Addis-Abeba. Perché?

Lo storico britannico Eric Hobsbawm ha realizzato uno studio molto interessante sul banditismo (1). Distingue innanzitutto i banditi criminali dei bassifondi dal banditismo sociale, che costituiscono "una sfida di principio per l'ordine stabilito della società di classe e per il suo funzionamento politico, indipendentemente dagli accordi che con entrambi trova nella pratica" Hobsbawm aggiunge che i banditi "condividono i valori e le aspirazioni del mondo contadino e come fuorilegge e ribelli, sono generalmente sensibili alle sue spinte rivoluzionarie". Basandosi su numerosi esempi, lo storico dimostra così che i banditi e i rivoluzionari sono simili sotto diversi aspetti. Ma c'è comunque un aspetto fondamentale che li differenzia, secondo Hobsbawm: contrariamente ai rivoluzionari, i banditi non hanno realmente un progetto di società. Se vi racconto questo, è perché in Etiopia, Zenawi e il TPLF non era rivoluzionari, ma banditi.

Facevano tuttavia discorsi molto impegnati

Ma questo gergo è servito soltanto a mascherare il vuoto abissale del loro progetto. L'idea di Zenawi era semplice: inizialmente, prendere la capitale Addis-Abeba e in seguito, indire un referendum che avrebbe accordato l'indipendenza al Tigrè. Ma chi avrebbe accettato ciò? Certamente non la Comunità internazionale. E ancora meno l'Organizzazione dell'Unità Africana (OUA, ndt) che teneva al rispetto rigoroso delle frontiere del continente, per paura di vedere l'Africa stretta dal conflitto.
L'idea di Zenawi era dunque semplice sul piano teorico. Ma in pratica, era difficilmente realizzabile. Un altro fattore gli farà cambiare parere: il sostegno degli Stati Uniti. Infatti, il ribelle del Tigrè aveva l'opportunità di prendere le redini dell'Etiopia o di strappare l'indipendenza della sua regione. E Washington lo ha sostenuto nella prima scelta.

Come era entrato Zenawi in rapporti con gli Stati Uniti?

Menghistu era sostenuto dall'Unione Sovietica. Così Washington si interessava ai movimenti che combattevano il principale alleato africano di Mosca. Il TPLF ha così avuto numerosi contatti con gli Occidentali, soprattutto gli Stati Uniti. Le ONG presenti nella regione hanno facilitato le cose. Sotto la copertura delle azioni umanitarie, potevano attivamente fungere da intermediari tra la ribellione del Tigrè e le autorità USA. Questo è stato anche il modo in cui Zenawi ha incontrato una delle sue migliori amiche, Gayle Smith. Lavorava per una di queste ONG presenti nel Tigrè durante la guerriglia. Recentemente, Obama l'ha nominata al vertice dell'Agenzia per lo Sviluppo Internazionale degli Stati Uniti (USAID). Ufficialmente, quest'organismo ha il compito di aiutare i poveri, promuovere la democrazia e aiutare le vittime di catastrofi naturali. Nei fatti, USAID lavora con il Dipartimento di Stato e la CIA, per condurre tutta una serie di operazioni sporche. Particolarmente attiva in America Latina, quest'agenzia si è mostrata in occasione del tentativo di colpo di stato contro Hugo Chavez nel 2002. Non sono stupito che la migliore amica di Zenawi si trovi al vertice di questa organizzazione.

Perché gli Stati Uniti hanno puntato sul TPLF, un'organizzazione maoista diventata filo-albanese?

Alla fine degli anni 80, il governo Menghistu era in agonia. Questo regime pseudo-marxista era uno dei principali alleati africani dell'Unione Sovietica. Aveva d'altra parte nazionalizzato vasti settori dell'economia etiope, mentre l'imperatore Sélassié aveva aperto il paese alle multinazionali. Con la caduta del Derg, gli Stati Uniti potevano sperare di recuperare l'Etiopia nella loro sfera d'influenza. Occorreva ancora puntare su un buon cavallo per sostituire Menghistu.
Per gli Stati Uniti, la situazione ricordava l'ascesa al potere di Sélassié. Ricordate, abbiamo visto nella prima parte di questa intervista come il dipartimento di Stato avesse trovato un cliente ideale nella persona di Sélassié. Era un giovane reggente, pieno di sé e che mancava penosamente d'analisi politica. Con tale dirigente a capo dell'Etiopia, gli Stati Uniti potevano sperare di fare fruttare i loro interessi in questo grande paese africano. Non sarebbero stati delusi. La parentesi del Derg aveva compromesso le relazioni statunitensi-etiopi. Ma con Zenawi, la fortuna sorrideva nuovamente agli Stati Uniti. Infatti, i quadri del TPLF non avevano una buona conoscenza dell'Etiopia e delle sue varie regioni. I loro discorsi pseudo-marxisti mascheravano una mancanza drammatica di prospettive. Erano vendicativi, ma non avevano veri progetti. Le loro invettive contro l'imperialismo suonavano erronee e la loro comprensione del mondo era molto povera. Infine, i banditi del TPLF erano banderuole che inghiottivano tutto ciò che si dava loro. Passavano così da una corrente marxista all'altra. E se Bin Laden avesse inviato una delegazione presso Zenawi, il TPLF sarebbe probabilmente diventato il ramo cristiano di Al-Qaida fin dal giorno dopo. La vacuità e la versatilità di questi banditi ne faceva burattini potenziali dell'imperialismo USA. Ancora una volta, gli Stati Uniti non saranno delusi.

Zenawi prende dunque il potere in Etiopia, ma senza un vero progetto. Ci sono, nonostante tutto, dei cambiamenti?

Il cambiamento più evidente è portato alla struttura dello Stato. Avanzando sotto la copertura della coalizione del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRDF), il TPLF ha introdotto il federalismo etnico in Etiopia. Lo abbiamo visto, il centralismo del Derg e il suo sciovinismo Amhara avevano generato una folla di movimenti di resistenza basati su identità etniche. Da lì, il TPLF pensava di risolvere tutti i problemi dell'Etiopia dividendo il paese in nove stati regionali, con relativa autonomia.
Ovviamente, il compito era complesso. L'Etiopia è composta da numerose nazionalità che non sono limitate a territori strettamente definiti. C'erano spostamenti di popolazione e matrimoni inter-etnici che non aiutavano a risolvere la questione. Tuttavia, sulla base del lavoro dell'Istituto delle Nazionalità messo in piedi da Menghistu, una Commissione speciale creò nove regioni, chiamate kilil. Il criterio determinante era la lingua. La delimitazione di questi territori era destinata necessariamente a sfociare in conflitti. Ma inizialmente, questi problemi erano stati messi di parte.

Come hanno accolto questo nuovo Stato federale le diverse nazionalità etiopi?

Piuttosto bene all'inizio. Sotto il Derg, l'uguaglianza delle nazionalità era restata un pio desiderio. D'altra parte, l'Etiopia aveva conosciuto soltanto poteri estremamente centralizzati dalla sua unificazione. Ma ecco che la nuova costituzione del TPLF proclamava: "Ogni potere sovrano risiede nelle nazioni, nazionalità e popoli dell'Etiopia". Ogni regione era invitata a eleggere i suoi rappresentanti e stabilire le sue istituzioni governative sul proprio territorio. Questo decentramento offrì delle opportunità ai laureati delle nazionalità che vivevano nella periferia. L'amministrazione pubblica diventava così un nuovo Eldorado per questi giovani relativamente istruiti, che non avevano mai potuto sperare di prendere l'ascensore sociale quando il potere era monopolizzato dall'elite Amhara.
Tuttavia, la riforma inciampò su alcuni ostacoli. Inizialmente, bastava a volte sapere leggere o scrivere per distinguersi ed entrare nell'amministrazione pubblica. In alcune regioni, persone non realmente competenti si sono dunque trovate ad occupare posti importanti. Ciò penalizzava il funzionamento dell'amministrazione, ovviamente. Rivalità di clan sono anche scoppiate in alcuni luoghi. Quando non si sviluppava la corruzione. Poi si creò un divario enorme tra la teoria e la pratica. Capite con ciò che, nei fatti, il TPLF non intendeva condividere equamente il potere con le entità federate. Come indica lo storico John Markakis, il finanziamento delle regioni rappresenta una prova veritiera sul decentramento del potere:
"Sotto i regimi precedenti, il sistema fiscale etiope era molto centralizzato. Quasi l'80 % delle entrate dello Stato erano raccolti da Addis-Abeba attraverso tasse sul commercio estero e imposte indirette sulla produzione interna. (…) La relazione tra il centro e le regioni non è cambiata con il cambiamento di regime. Al contrario, è diventata più squilibrata. I dati fiscali del 1995 hanno mostrato che il governo centrale riceveva circa 83,7% di tutti i redditi nazionali e 91.13% dell'insieme dei redditi compreso in particolare l'aiuto esterno. Questo mentre il costo per la copertura dei servizi sociali, compresa la sanità e l'istruzione, era passato dal centro ai kilil (governi regionali, ndr). Circa la metà delle spese dei kilil (ordinarie e straordinarie) e meno del 10% delle spese del governo centrale vanno ai servizi sociali. In questo modo i kilil con le loro risorse sono in grado di finanziare soltanto meno della metà delle loro spese ordinarie e per niente le spese straordinarie. E restano molto dipendenti dalle sovvenzioni di Addis Abeba." (2)

Il federalismo non ha dunque garantito la democrazia in Etiopia?

Innanzitutto, il federalismo non è un rimedio miracoloso che si prescrive a qualsiasi paese in crisi. Il federalismo si iscrive in un processo storico. Non ha nulla a che vedere con la lingua e funziona nel senso dell'unificazione. La storia ci mostra così che federazioni sono nate e diventate terribilmente efficaci dopo che entità separate hanno deciso di collegarsi per essere più forti. Invece, nell'altro senso, i risultati non sono probanti. Se si introduce il federalismo per dividere uno Stato che era unito e se ciò viene fatto inoltre su base linguistica, il processo condurrà al fallimento. L'esempio del Belgio è eclatante. Il federalismo ha notevolmente complicato il paesaggio istituzionale. Si contano più di sessanta ministri per undici milioni di abitanti. È tantissimo! E non è che se i ministri sono numerosi, il paese vada meglio. Al contrario, questo tende a complicare le cose. Ad esempio, in occasione del COP21, il Belgio è apparso ridicolo, poiché i quattro ministri dell'ambiente che conta il paese non riuscivano a trovare un accordo preventivo prima di partecipare alla conferenza di Parigi. Infatti, i fiamminghi trovavano che il compromesso fosse loro sfavorevole. Il fatto è che il federalismo non ha permesso per niente di risolvere i problemi comunitari. Quaranta anni dopo la divisione istituzionale del paese, si parla regolarmente di una possibile spaccatura del Belgio.

Belgio ed Etiopia, la stessa lotta?

In Etiopia, il federalismo ha anche introdotto divisioni su basi linguistiche. Ma i problemi non sono proprio gli stessi che in Belgio. Menghistu aveva rifiutato di applicare l'uguaglianza delle nazionalità poiché la percepiva come una minaccia per l'unità dell'Etiopia. Il TPLF invece ha fatto suo questo principio d'uguaglianza e l'ha applicato attraverso il federalismo. Ma il federalismo secondo Zenawi può essere riassunto così: avete un bel pollo sulla tavola, prendete i pezzi migliori e date i resti agli altri. È ciò che è avvenuto dopo la caduta di Menghistu. In nome del federalismo, il Tigrè del TPLF ha detto alle varie nazionalità: "Tornate nella vostra regione. Noi ci siederemo a Addis e mangeremo i pezzi migliori del pollo etiope". È una forma di colonialismo inverso.

Dopo Sélassié e Menghistu, l'Etiopia doveva dunque affondare in una nuova dittatura?

Al di là della retorica, una democrazia di facciata si è così instaurata dopo la dittatura militare. In teoria, tutti gli Etiopi dovevano avere voce in capitolo e il potere doveva essere condiviso. In pratica, il TPLF, nascosto dietro la coalizione del EPRDF, imponeva a tutti la sua volontà. Ad esempio, la costituzione prevedeva che un referendum per l'autodeterminazione avrebbe potuto essere organizzato se il 51% degli eletti di un Parlamento regionale ne avesse fatto richiesta. L'occasione si è presentata nella Regione somala. Ma alla richiesta di referendum, il TPLF ha replicato imprigionando una buona parte dei parlamentari somali. Non ci sono dubbi che la regione sia diventata indipendente!
L'esempio degli Oromo è anche pesante. Costituiscono la principale etnia dell'Etiopia, che rappresenta più del 35% della popolazione. Ma la loro storia è abbastanza singolare. Benché maggioritari, gli Oromo sono stati sempre tenuti ai margini dal potere centrale. L'assenza storica di un nazionalismo forte e la mancanza di coesione culturale non aiuta questo gruppo a pesare quanto la sua demografia.
"Mentre i pastori Oromo si disperdono, acquisiscono nuovi territori e si mescolano ai loro vincitori, si staccano delle loro tradizioni d'origine, si dissociano gli uni dagli altri e non intrattengono più relazioni se non episodiche con la loro terra natale, l'attuale Borana dove alcune tribù restano fedeli alle vecchie tradizioni, notava Jacques Bureau. In definitiva gli Oromo sono cristiani o musulmani, divisi in regni o in società segmentate."(3)

Il TPLF diffidava molto degli Oromo?

Sì, poiché il loro peso demografico era una minaccia per un potere minoritario come quello del TPLF. Tanto più che col tempo e la repressione del potere centrale, si è sviluppato il nazionalismo oromo. Gli Oromo avevano il loro movimento di resistenza contro il Derg, il Fronte di Liberazione Oromo (OLF). Un movimento che Zenawi ha tentato di controbilanciare creando un suo fantoccio, l'Organizzazione Democratica del Popolo Oromo (OPDO). Ma l'OLF è nel cuore degli Oromo, contrariamente alla OPDO che era giustamente percepita dalla maggior parte come uno strumento del TPLF. Nel 1992 vengono organizzate le elezioni regionali e Zenawi sapeva che l'OLF avrebbe vinto in larga misura le elezioni in Oromia. Ha dunque imrogliato per allontanare l'OLF. Oggi, quest'organizzazione vive in esilio.

Anziché garantire una rappresentazione democratica delle diverse nazionalità etiopi, il federalismo etnico era dunque uno strumento di potere per Zenawi?

Esattamente. Conoscete il vecchio proverbio coloniale: dividere per regnare. Zenawi ha fatto lo stesso in Etiopia. Ha fatto di tutto per demolire il senso di appartenenza alla nazionalità etiope e dividere il popolo. Ad esempio, la coalizione al potere dell'EPRDF contava nel suo ambito sul Movimento Democratico del Popolo Etiope (EPDM), formato da ex studenti rivoluzionari. Prima delle elezioni del 1995, Zenawi disse loro che dovevano cambiare nome e diventare un'organizzazione amhara. Quadri del EPDM protestarono poiché si sentivano soprattutto etiopi. Ma Zenawi forzò la mano e il Movimento Democratico del Popolo Etiope è diventato il Movimento Democratico Nazionale Amhara (ANDM). Coloro che facevano parte del EPDM, ma che non erano Amhara, furono rinviati nella loro regione d'origine, a creare nuove organizzazioni etniche.

Zenawi ha diretto il paese dalla caduta del Derg nel 1991, fino alla sua morte nel 2005. Il suo partito ha sempre vinto le elezioni con risultati incerti. Perché gli Stati Uniti, che si presentano come i campioni della democrazia nel mondo, hanno fatto di questa Etiopia un alleato strategico? Hanno chiuso gli occhi sulle derive dittatoriali di Zenawi per garantire la stabilità del Corno d'Africa?

La Libia era stabile prima che la NATO sostenesse una sollevazione armata nell'est del paese. Da allora, il paese è affondato nel caos. Infatti, la stabilità dei paesi del sud non è un obiettivo particolarmente perseguito dagli Stati Uniti. La stabilità non mette al riparo dai bombardieri USA. E non è per la stabilità che gli Stati Uniti chiudono gli occhi sulle derive dei loro alleati, fossero anche terribili dittatori. Se confrontate la lista dei paesi che sono attaccati dagli Stati Uniti, alla lista dei paesi che essi sostengono, osserverete che la stabilità e la democrazia non condizionano le relazioni di Washington con il resto del mondo. L'Arabia Saudita e il Qatar sono dittature, ma sono fra gli amici stretti degli Stati Uniti. Il Cile di Allende o il Venezuela di Chavez erano democrazie, ma ciò non ha impedito alla CIA di organizzare colpi di stato. Israele è una fonte d'instabilità nel Medio Oriente, ma Obama ha dichiarato: "Israele è uno dei nostri alleati più forti". Gli Stati Uniti hanno d'altra parte devastato paesi come l'Iraq, l'Afghanistan e la Siria, trasformando il Medio Oriente in una regione caotica, dove prosperano i gruppi terroristici. E non sono neanche interessati alla stabilità del Corno d'Africa. L'imperialismo USA ha creato problemi in Sudan, fino a dividere il paese. Ha anche impedito alla Somalia di ricostruirsi, delegando l'esercito etiope a combattere gli shabaab somali. Infine, Washington cerca di destabilizzare a colpi di sanzioni l'Eritrea, poiché questo paese ha la sfortuna di rifiutare i piani della Banca mondiale e del FMI.

(continua)

Note

1. Eric Hobsbawm, Les bandits, Ed. Zones, 2008.

2. John Markakis, Ethiopia. The Last Two Frontiers, James Currey, 2011

3. Jacques Bureau, Éthiopie. Un drame impérial et rouge, Editions Ramsay, 1987
 

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