Per due manifestanti scarcerati nei giorni scorsi dal regime di Al-Sisi (Ahmed Said e Sanaa Saif) medico l’uno, attivista l’altra, non solo migliaia di oppositori restano in galera, ma si preparano ulteriori arresti facilitati da nuove normative in corso d’applicazione. I passi legislativi del governo hanno introdotto nel Parlamento addomesticato una modifica all’articolo 78 del Codice Penale rivolto, in maniera mirata, contro le organizzazioni non governative. La modifica è ora all’esame del Consiglio di Stato. Le Ong finiscono nell’occhio del ciclone, come qualsiasi cittadino pensante e disobbediente ai diktat del Feldmaresciallo divenuto capo di Stato. In sostanza le si accusa di esistere, visto che si limita ogni loro attività autonoma e si offre il via libera solo a quelle che seguono la via maestra dettata dalle Istituzioni, ovviamente poste sotto la supervisione di Esecutivo e Presidenza. Ancor più l’impianto di controllo vale per le strutture straniere, che possono “mettere in pericolo la sicurezza nazionale”. In tal modo il cerchio si chiude, poiché le attività di sostegno a qualsiasi causa vanno passate al vaglio delle autorità egiziane che possono negare la licenza, espellere gli operatori e, nelle ipotesi peggiori, adottare sanzioni penali, pecuniarie o detentive. Amnesty International ed esponenti egiziani dei diritti alle Nazioni Unite denunciano questo panorama che s’aggiunge a quanto accade da anni nel grande Paese arabo in fatto di repressione, un’illegalità che trova appoggi nelle misure-forzature istituzionali.
Ad esempio, fu il presidente a interim Adly Mansour, a fine novembre 2013, a introdurre la legge contro la possibilità di riunirsi in piazza, per evitare non solo i grandi raduni di Tahrir o i sit-in d’opposizione simili a quelli della moschea di Rabaa, ma impedendo ogni capannello di persone munite di cartelli, striscioni o megafoni. La legge cosiddetta “anti-protesta” è in contraddizione anche con la Costituzione voluta dai golpisti pro Sisi, votata nel 2014, che garantisce ai cittadini la libertà di assemblea e incontro, se questi si svolgono in un contesto pacifico. Decine di casi di riunioni pubbliche, lontane da qualsiasi orientamento di protesta ma semplicemente dimostrative o celebrative sono state sciolte violentemente, provocando centinaia di arresti e decine di morti: quarantanove il 25 gennaio 2014, diciotto un anno dopo. Quei cittadini ricordavano la “Rivoluzione egiziana”, cui tutti a parole si sono richiamati e che ormai è inseguita da una minoranza della popolazione, peraltro ampiamente diminuita a seguito della repressione. Lo Stato del silenzio e dell’oblìo è la forma propagandata dal regime che cerca di darsi apparenze di normalità, puntualmente smentite dai fatti. Proprio in questi giorni s’è tenuta a Roma, all’interno del Parlamento, un convegno organizzato da un nutrito gruppo di associazioni dei diritti.
“Difendiamoli!” era il titolo del convegno, che diventava anche un’esortazione e un programma rivolti ai milioni di casi in cui l’offesa ai diritti dei cittadini rappresenta una piaga, anche in nazioni ritenute democratiche. Fra gli attivisti dei diritti intervenuti all’assise doveva esserci anche l’avvocato egiziano Malek Adly, che in occasione della sparizione di Giulio Regeni s’era attivato nella ricerca dello studioso trovato morto, oltreché seviziato. Adly aveva lanciato accuse agli apparati della repressione perché quel caso somigliava ad altre efferatezze registrate nel Paese dai legali democratici egiziani. Nello scorso maggio Adly era stato imprigionato proprio in base alla citata legge anti-protesta per aver contestato la cessione governative delle isole Tiran e Safir all’Arabia Saudita. Come altri attivisti e giornalisti incarcerati ha subìto isolamento e privazioni, tornando poi libero ad ottobre. Una libertà vigilata e limitata poiché in occasione del convegno romano il ministero dell’Interno (dove regna Abdel Ghaffar, uno dei possibili mandanti dell’omicidio Regeni) gli ha negato il visto per l’Italia. La voce di Adly è giunta registrata su un video e ha sottolineato come la distruzione dei diritti umani sia il cardine del programma di Sisi, che va fermato anche con una campagna internazionale volta alla difesa delle condizioni di “libertà di pensiero, espressione, riunione e partecipazione dei cittadini”.
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