Giulio Regeni scoprì tardi le infide mani cui s’era affidato, seppure nella sua indagine sul tessuto sociale del Cairo, Mohamed Abdallah, che il ricercatore definisce miserabile, risultasse il responsabile del sindacato dei lavoratori ambulanti. L’uomo rappresentava una quantità infinita di persone che lavorano in una filiera di parziale legalità o di totale illegalità. Terreno di enorme interesse, da scandagliare, perché in quella megalopoli che è la capitale egiziana coinvolge forse uno o due milioni d’individui che danno da mangiare a cinque, sette milioni di bocche. Eppure chi in loco ha osservato con attenzione, e dovuta discrezione, persone, luoghi e contesto in cui quei commerci si sviluppano ha notato in quante occasioni uomini in divisa, o con fare da divisa, avvicinano gli ambulanti. In pochi casi cercano di sequestrare merce, estranea spesso a ogni controllo, in altri intessono dialoghi, conciliaboli. Cercano confidenze, ricevendo notizie e delazioni.
Perciò non sorprende scoprire in Abdallah quel doppiogiochista diventato agli occhi di Regeni un personaggio meschino che lo vende ai poliziotti per continuare a ricevere favori per sé e la categoria, assediata e al tempo lusingata dalle vendite e dal mercimonio.
Il fatto che lo pseudo sindacalista ne parli ora, smentendo quanto dichiarato, o meglio non dichiarato, in precedenza, non può essere frutto d’una personale decisione. La sua versione subisce un correttivo dopo che mesi d’indagini e molteplici depistaggi da parte delle autorità inquirenti e politiche egiziane hanno prodotto il nulla. Le dichiarazioni di Abdallah, infarcite della bontà di comportamento che ogni sincero egiziano avrebbe tenuto di fronte a uno straniero intrigante e sospetto, paiono seguire un copione recapitatogli dal ministero dell’Interno.
In quell’intreccio criminale che è stato il rapimento, lo strazio e l’omicidio di Giulio Regeni, nella saga del ricatto e dello sfruttamento dei ruoli la regia rimodella le voci. Quindi fa recitare all’informatore la parte del cittadino modello che lancia anche un proclama all’egiziano medio che deve farsi Stato a fianco degli organismi dello Stato. Quelli che proteggono il singolo e la collettività, come molti credevano accadesse ai tempi della thawra di Tahrir, “custodita” dalla lobby delle stellette. Questo sostenevano liberali e nasseriani. Di quale custodia si trattasse lo spiegano da anni le carceri speciali che rinchiudono decine di migliaia di oppositori.
La versione affibbiata ad Abdallah rilancia due concetti precisi: Regeni era una spia oppure un ingenuo, doppiamente giocato, da chi lo manovrava e dal personaggio cui s’era affidato. Ma ad ucciderlo, sostiene il suo traditore, sarebbe stata non l’Intelligence interna, bensì quella dei suoi ispiratori palesi od occulti. Così il cerchio si richiude a preservare i vip della politica del Cairo: il ministro dell’Interno Ghaffar e il presidente Sisi, che da mesi schivano un’indagine seria inibendo la magistratura interna e impediscono allo staff del procuratore italiano Pignatone di realizzare adeguate ricerche su esecutori e mandanti dell’efferato delitto. Le attuali dichiarazioni del sindacalista-informatore rilanciano un’ipotesi già gettata in pasto alla stampa: operazioni di micro spionaggio compiute dal Dipartimento dell’Università di Cambridge per conto dei Servizi britannici.
Un’illazione che potrebbe venir rimossa da quel mondo accademico che così salverebbe il suo onore e quello di Regeni. Però Cambridge resta ingessata nella sua tradizione e non raccoglie insinuazioni né provocazioni, trincerandosi in un silenzio ormai stridente. Ma se tutto deve coincidere, secondo l’attuale affermazione accanto al presunto spionaggio e alla conseguente eliminazione, ci dovrebbero essere pure le sevizie. Fino a che punto la memoria di Regeni dev’essere martoriata?
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it
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