Trenta morti ieri nell’ospedale Sardar Daud Khan di Kabul: personale sanitario e pazienti sono stati falciati a colpi di kalashnikov da miliziani dell’Isis travestiti da medici. Questi sono penetrati nell’edificio, posto nella zona più vigilata della capitale a neppure un paio di chilometri dall’ambasciata statunitense, dopo che un kamikaze s’era fatto esplodere all’ingresso, creando il caos utile all’attacco dei propri compagni.
Alcuni jihadisti, vestendo un camice bianco, s’erano già introdotti nell’ospedale. Anche quest’azione (fra il 2015 e 2016 si sono registrati 240 attacchi che hanno coinvolto strutture e personale sanitario), come i vari attentati che si succedono: nei giorni precedenti la capitale aveva subìto due esplosioni egualmente sanguinose, ha il duplice scopo di seminare paura fra una popolazione stremata e mostrare la totale inefficienza del governo nel garantire il controllo del territorio. Una carenza militare cronica, nonostante la quantità di finanziamenti americani rivolti al settore, e una eguale pochezza politico-amministrativa, tanto che Ghani sta da mesi cercando un sostegno nelle componenti talebane che ha invitato a collaborare e addirittura entrare nelle Istituzioni. Una parte dei Talib ha accettato l’invito al confronto, un’altra resta refrattaria e compie essa stessa azioni di guerriglia contro l’esercito, soprattutto per sottomettere completamente alcune province.
Non è un segreto che da un paio d’anni il territorio controllato dai talebani e signori della guerra a loro vicini, sia crescente. C’è chi parla del 40% chi addirittura del 60% del Paese. In questo vuoto di potere e nelle dinamiche per occuparlo, si è inserito da circa un biennio un combattentismo che si rifà alla sigla del Daesh. Seppure emissari di Al Baghdadi abbiano compiuto incontri strategici, i jihadisti afghani che usano la sigla dell’Isis non sono foreign fighters, com’è accaduto in Iraq e Siria. Analisti locali hanno individuato componenti di dissidenza talebana entrati in contrasto con alcuni capi in occasione della successione del mullah Omar. Una successione avvenuta ben oltre il decesso del leader storico (aprile 2013) che fu tenuto nascosta proprio per il timore, rivelatosi reale, di squilibri interni.
Alle lotte intestine per ragioni di orientamento politico della comunità, cui non sono esenti fattori etnici, s’aggiungono divergenze fra chi ripropone un controllo sull’Afghanistan propriamente detto, dunque una presa del potere simile a quella del 1996, mirando a instaurare un Emirato, e chi invece si pone in sintonia col progetto di Califfato che travalica i confini regionali, guardando all’intera umma posta nei vari continenti.
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