Torna libero Hosni Mubarak, il raìs che ha incarnato l’Egitto contemporaneo, traghettandolo dai sogni di grandezza ancora in animo nel Sadat della guerra del Kippur e poi mediatore nell’apertura all’Occidente e a Israele, alla totale subordinazione ai disegni statunitensi e sionisti nel Medio Oriente. Sia riguardo all’irrisolta questione palestinese, che durante il suo regime sviluppò nei territori attigui due Intifade, subendo le periodiche aggressioni preventive dell’esercito di Tel Aviv con un Egitto spesso compiacente alleato contro la resistenza palestinese; sia nella crescente involuzione del fronte progressista, cui lo stesso partito di Mubarak aderiva nella sedicente Internazionale socialista.
Insieme ad altri capi di stato arabi, trasformatisi in autocrati e dittatori, Mubarak ha incarnato quella gestione personale e clanista del potere che ha rilanciato proteste e contestazioni popolari, oltreché il riproporsi dell’Islam politico. Era stato arrestato dopo il suo allontanamento ufficiale dalla presidenza, l’11 febbraio 2011, quando assieme al ministro dell’Interno al-Adly venne accusato di strage per le feroci repressioni poliziesche intercorse dal giorno seguente la grande manifestazione popolare di piazza Tahrir (25 gennaio 2011) che fecero 850 vittime. La contestazione crescente rilanciava il desiderio di cambiamento della nazione, già da alcune settimane richiesta anche dal popolo tunisino. Pane, libertà, dignità, gridavano le due piazze arabe, cui presto se ne aggiunsero altre. Quelle di Libia e Siria hanno avuto evoluzioni tragiche e bagni di sangue tuttora in corso.
Dopo le prime settimane di reclusione, alibi d’un tumore in realtà mai riscontrato, condussero Mubarak nelle infermerie del carcere e poi negli ospedali militari. Da quello di Maasri, dov’è rimasto pe due anni, è uscito ieri mattina. Subito dopo l’arresto del 2011, per qualche mese s’era vociferata l’ipotesi d’una possibile condanna a morte, scartata in parte per l’età (era già ultraottantenne) e per volontà della stessa amministrazione della Fratellanza Musulmana, con Qandil premier e Morsi presidente, che non volevano rincrudire spaccature nazionali in corso. Correvano estate e autunno del 2012 e si comprese che il vecchio leone sarebbe al massimo stato condannato a un periodo di reclusione, sebbene la prima sentenza tramutò l’impiccagione in ergastolo ‘per alto tradimento, verso la nazione e il popolo’.
La diplomazia internazionale con Obama, che pure guardava amichevolmente alla svolta islamica, cercava di sostenere se non il perdonismo perlomeno una linea morbida. Certamente favorevole all’anziano Capo di Stato restava una buona fetta della magistratura, tutta formata e cresciuta in carriera sotto il suo regime. Passo dopo passo i processi, che vedevano coinvolti per corruzione, accaparramenti, ruberie gli stessi rampolli Ala e Gamal, hanno smussato toni d’accusa e sono finiti nel nulla, grazie all’arrivo ai vertici dello Stato dell’ennesimo militare: il generale Al Sisi.
La lobby dell’esercito, cui Mubarak apparteneva, non aveva mai cessato di avere mani e controllo sulla nazione, nella sfera politica ed economica, come a vantaggio di chi veste la divisa e distribuisce diverse tipologie di lavoro nell’indotto e ovviamente ai vertici, cui erano permessi gli arricchimenti interni al clan mubarakiano. Uno di costoro era il generale Shifiq che perse le elezioni contro Mursi.
Oggi a 88 anni, Mubarak allunga lo sguardo e saluta. Dei morti di Tahrir, torture, rendition, arresti, sparizioni e assassini alla Khaled Said nessuno più parla. Anche perché gli scempi sono sostituiti da altrettante mattanze, dalla moschea Rabaa a Regeni. E non è finita, perché al Cairo continuano a regnare le sfingi.
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