L’analisi di Alberto Negri. “L’Afghanistan è una prova del fuoco, per nulla metaforica, di tutte le contraddizioni occidentali.” *
Forse qualcuno si ricorderà che nell’aprile scorso gli americani sganciarono sull’Isis in Afghanistan la “madre di tutte le bombe”, un ordigno ad altissimo potenziale. In realtà si trattava più di un colpo pubblicitario che altro. I talebani, i vecchi padroni che ospitavano Osama Bin Laden, fondatore di Al Qaida e stratega dell’11 settembre 2001, controllano ancora circa il 40% del territorio fuori dalle città ma anche il Califfato è presente, come testimonia l’ultimo attentato a Kabul con oltre 40 morti contro la sede di un’agenzia di notizie e un centro sciita.
L’Afghanistan, dove gli italiani stanno diminuendo i contingente di Herat per spostarlo in Niger sulle rotte dei migranti, è ancora fuori controllo e il governo del presidente Ashraf Ghani, sostenuto dalle truppe occidentali, appare un creatura fragile con forze armate poco affidabili e inefficienti.
I jihadisti del Califfato inoltre si stanno specializzando in una vecchia tattica già sperimentata in Iraq e in Siria: colpire la popolazione sciita per creare una spaccatura con i sunniti. Le divisioni locali ci sono già e hanno antiche radici storiche e religiose, ma i jihadisti non esitano a sfruttarle a loro vantaggio.
Dell’Afghanistan, la cui instabilità è strettamente collegata quella del Pakistan – 160 milioni di abitanti e potenza nucleare in eterna competizione con l’India per il Kashmir – si parla sempre di meno perché è evidente a tutti che se le truppe occidentali si ritirassero, cadrebbe di nuovo in mano ai radicali islamici, se non peggio. Eppure dall’Afghanistan non si esce fuori, quasi a volere confermare che questa terra affascinante è ancora la tomba degli Imperi.
Come mi disse una volta un capo talebano: “Voi avete l’orologio, ma noi possediamo il tempo”. Gli afghani sanno aspettare e logorano qualunque avversario, soprattutto quando si tratta di occupanti stranieri. Lo sanno bene i britannici che vi restarono impantanati nel 1800, come pure i russi che 38 anni fa invasero il Paese per sostenere un governo filo-sovietico.
L’Afghanistan è una prova del fuoco, per nulla metaforica, di tutte le contraddizioni occidentali.
Nel 2010 gli Stati Uniti annunciarono che in quattro anni sarebbero stati “completamente fuori” dell’Afghanistan. Nel 2014 Barack Obama dichiarava invece avrebbe lasciato circa ottomila soldati americani e che avrebbe siglato un accordo con Kabul per prolungare la loro permanenza “fino alla fine del 2024 e anche oltre”.
Il nuovo presidente Donald Trump era contrario su tutta la linea a rimanere con le truppe sul campo. In uno dei suoi celebri tweet affermava: “I nostri soldati vengono uccisi dagli afghani che noi stessi addestriamo e in quel paese sprechiamo miliardi di dollari. È una cosa insensata! Ricostruiamo gli Stati Uniti”.
Ma i generali Mattis e MacMaster, rispettivamente il capo del Pentagono e quello della Sicurezza nazionale, che in Afghanistan hanno combattuto, lo hanno indotto a cambiare posizione. In agosto Trump ha annunciato l’invio di altri marines e che ci resteranno per tutto il tempo necessario. Accompagnando la decisione con questa frase: “Non si tratta più di ricostruire una nazione. Uccideremo i terroristi”. Come se gli altri presidenti, da Bush junior a Obama, non ci avessero pensato.
Sono frasi come queste che fanno dubitare che le decisioni di Trump siano ispirate a una strategia razionale. Il picco della presenza statunitense in Afghanistan è stato nel 2011 con centomila soldati. Se all’epoca questo non è stato sufficiente a conseguire la vittoria, perché mai dovrebbe esserlo oggi un incremento delle truppe da 8mila a 12 mila uomini? Né l’Unione Sovietica né l’impero britannico al suo apice hanno avuto la meglio sulla resistenza afghana, e gli ultimi sedici anni ci dimostrano che nemmeno gli Stati Uniti ce l’hanno fatta. Questa rimane la più lunga guerra ingaggiata dagli Usa nella loro storia.
Certo se gli Usa mollassero la presa il ritorno di talebani sarebbe quasi inevitabile. Ma i talebani sono anche i principali rivali sul piano militare dei jihadisti dell’Isis: non hanno l’ambizione di creare un Califfato internazionale ma di riprendere soprattutto il controllo dell’Afghanistan, sono in fondo degli iper-nazionalisti con un’ideologia da radicali islamici.
In realtà gli americani possono solo evitare il crollo di un governo sostenuto dall’Occidente, esattamente come fecero i sovietici invadendo il Paese nel dicembre 1979 per poi ritirarsi dieci anni dopo, appena prima della fine del Muro di Berlino. Allora – ricordiamo anche questo – i combattenti afghani e i jihadisti anti-sovietici alla Bin Laden erano gli “eroi” dell’Occidente, una generazione dopo diventarono i “barbari” degli attentati in Europa.
Vale quindi ancora il vecchio detto del premier britannico Anthony Eden che negli anni Trenta disse: “Prima regola della politica: mai fare la guerra in Afghanistan”.
*da L’Antiplomatico
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