Terza notte di proteste e scontri in Tunisia: le misure di austerità imposte dal governo hanno innescato una reazione sociale imponente, che ha portato in piazza migliaia di persone sette anni dopo la “primavera araba”. La protesta, esplosa quattro giorni fa nella città di Tebourba, è poi divampata in altre località fino ad arrivare a Tunisi.
La Tunisia è l’unico paese in cui l’esito della rivolta del 2011 è stato in qualche modo positivo: democrazia, multipartitismo, elezioni, rappresentanza popolare abbastanza garantita.
Ma le condizioni materiali del popolo tunisino non sono cambiate molto, in questi anni: sopratutto nelle aree periferiche, storicamente marginalizzate ed altrettanto storicamente depresse dal punto di vista economico ed infrastrutturale, la crisi alla base di buona parte delle rivendicazioni che animarono le proteste del 2011, che sfociarono nella Rivolta dei Gelsomini e nella deposizione del dittatore Ben Ali.
Come ormai quasi sempre accade, il malcontento popolare nasce quasi in automatico in seguito alle misure di austerità che i governi, in accordo con i massimi organi internazionali (Fondo Monetario, Banca Centrale), applicano per uscire da una situazione di crisi economica e sociale.
Un meccanismo perverso e folle, che la storia ha già abbondantemente classificato come inutile e dannoso, e che nonostante tutto viene applicato a mò di “copia e incolla”, con buona pace delle classi sociali più deboli e “subalterne” che finiscono per pagare il conto più salato di queste politiche devastanti ma assolutamente funzionali agli interessi di banche e finanza.
In Tunisia sta avvenendo esattamente questo: la Rivolta dei Gelsomini, esplosa a fine 2010 dopo che un Mohamed Bouazizi, lavoratore 26, si era dato fuoco per protesta, ha portato alla cacciata del dittatore Ben Ali, che era al potere da oltre 20 anni.
La protesta tunisina, tra l’altro, fu la prima nell’area, e diede il via alle varie “primavere arabe” che diedero l’illusione di un cambiamento forte dei rapporti di potere nel mondo arabo, ma che si risolsero nella migliore delle situazioni in un gattopardesco “cambiare affinchè nulla cambi” (vedi Egitto), nella peggiore in un bagno di sangue (vedi Siria).
In effetti la Tunisia fu l’unico paese coinvolto in quel momento di reazione popolare (in alcuni casi eterodiretta) ad assistere ad un cambiamento reale a livello politico. Meno rilevante il cambiamento a livello sociale ed economico: nessuno dei governi che si sono succeduti è riuscito a far uscire il paese da una crisi perdurante che, nonostante la menzione di “paese dell’anno” attribuita nel 2014 dall’Economist, ha reso insostenibili le condizioni materiali di una considerevole parte della popolazione.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’ultima legge finanziaria varata dal governo di coalizione presieduto da Youssef Chaled, nata appunto dall’applicazione dell’ormai famigerato “protocollo austerity”, che inizia il suo iter da una richiesta forte e chiara da parte del Fondo Monetario Internazionale: riforme strutturali e politiche aggressive per abbattere il deficit in cambio dello sblocco della seconda tranche di un prestito approvato nel 2016.
Il governo esegue, approvando la finanziaria 2018: tagli dei sussidi energetici e conseguente aumento del prezzo dei carburanti, rincari di alcuni beni di prima necessità come ad esempio il pane, aumento delle assicurazioni ed in generale dei servizi, maggiorazione dell’IVA.
Un incremento di pressione sociale che ha fatto esplodere la protesta di chi non ce la faceva già più, con le generazioni più giovani e le classi meno abbienti in prima fila in quanto maggiormente colpite da disoccupazione, marginalizzazione sociale, assenza di prospettive.
A peggiorare la situazione, il calo registrato dal settore turistico che fatica a riprendersi dopo il grave attentato del 2015.
Nel corso della terza notte di mobilitazione si registrano scontri a Siliana e Kasserine, nel nord-ovest del paese: le fonti raccontano di una forte presenza di giovani tra i manifestanti, alcuni testimoni riferiscono di tentativi di infiltrazione jihadista, ma in questo senso al momento non ci sono conferme.
Dall’inizio della protesta si registrano oltre 300 arresti, decine di agenti di polizia feriti e una vittima: un uomo di circa 50 anni morto nel corso degli scontri nella città di Tabourba. Per alcuni testimoni ad ucciderlo sarebbe stato travolto da un veicolo delle forze di sicurezza, per il governo invece a causarne il decesso un blocco respiratorio dovuto, forse, all’inalazione dei gas lacrimogeni.
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