Gli scontri di questi ultimi giorni riportano la Tunisia a sette anni fa. In molte città la popolazione, per l’ennesima volta, protesta per le precarie e difficili condizioni del paese: disoccupazione, crisi economica e, come novità dell’ultima finanziaria del 2018, aumento delle tasse su tutti i beni di prima necessità.
“Una condizione necessaria”, secondo il primo ministro Youssef Chahed per limitare il progressivo indebitamento estero che ha messo, però, in crisi lo stesso Governo di Unità Nazionale (Gun). Proprio a causa della crescente tensione e al calo di consensi il presidente della repubblica Beji Caib Essebsi, leader del partito laico Nidaa Tounes, ha annunciato che si presenterà alle prossime elezioni comunali di maggio con una coalizione contrapposta all’attuale alleato Rachid Gannouchi, segretario del partito islamista Ennahdha.
“Sono convinto che la Tunisia uscirà da questa crisi e questo sarà l’ultimo anno di sacrifici per il nostro popolo”, così si è giustificato il premier Chahed dopo l’approvazione delle finanziaria “lacrime e sangue” che vedrà un aumento anche del 300% su numerosi prodotti anche di prima necessità per rispettare e contrastare l’indebitamento con l’Fmi. Le proteste di questi giorni, per alcuni una seconda rivoluzione, continuano comunque a minare la durata dello stesso Governo Unità Nazionale prima della sua fine naturale prevista nel 2019 e le opposizioni sono schierate perché le riforme della finanziaria vengano rimosse, in particolare quelle sul carovita.
A sentire tutte le forze politiche di opposizione la pazienza sembra finita e l’ottimismo pure. Quello che resta nel settimo anniversario della “rivoluzione dei gelsomini”, quando la rivolta popolare fece scappare l’allora dittatore Ben Ali, è una profonda crisi economica, sociale, ma soprattutto politica.
“Oggi, nonostante le vittorie e le conquiste sociali, non è tempo di romanticismo o celebrazioni – ha dichiarato Hamma Hammami segretario del Fronte Popolare (sinistra tunisina) – Il governo evidenzia il suo immobilismo, la sua impreparazione ed il suo dispotismo”. Secondo gran parte delle opposizioni il fatto che la rivoluzione dei gelsomini sia l’unica ad aver resistito alle primavere arabe non può più bastare e rischia di far implodere un paese che, nonostante tutto, è ricco di una vitalità sociale e culturale forse unica in tutta l’area del Maghreb.
La Tunisia ha ottenuto numerose conquiste: le prime elezioni politiche e democratiche del 2011 e del 2014, ma soprattutto la Costituzione, una delle più progressiste e laiche nel mondo arabo. Numerose le riforme in campo dei diritti umani, della parità di genere – come la legge che equipara le donne agli uomini o le libertà per il matrimonio tra persone di religione diversa. Il Movimento #Mouch bessif contro l’obbligatorietà del Ramadan, le lotte della comunità Lgbt con l’apertura di una Web-radio, unica nel mondo arabo, o le fondamentali riforme sull’equiparazione dei diritti delle donne ne sono solo alcuni esempi.
Dall’altra parte, però, il paese attraversa un periodo di crisi a livello economico e politico e molti analisti mettono in guardia contro un ritorno all’autoritarismo. Decine di personaggi della società civile, universitaria, artisti e militanti hanno recentemente firmato una petizione (#Fech Nestanou – Cosa aspettiamo?) per “salvaguardare gli spazi di libertà conquistati con il sangue del 2011”. Il governo sembra puntare al mantenimento dello status quo, soffocando qualsiasi possibilità di opposizione o dissenso come la violenta repressione poliziesca sulle manifestazioni di questi giorni o lo “stato d’emergenza” rinnovato ogni sei mesi a causa dell’emergenza terrorismo.
“Molte delle rivendicazioni della popolazione non hanno avuto nessun tipo di risposta soprattutto in termini di lavoro o contrasto alla corruzione”, c’è scritto nella petizione con una chiara accusa al presidente di portare avanti un’offensiva anti-democratica.
In quest’ottica si possono leggere la recente legge di “riconciliazione nazionale” per riabilitare gran parte della vecchia classe politica della dittatura di Ben Ali (settembre 2017) o il continuo rinvio delle elezioni municipali previste, dopo sette anni, per fine dicembre 2017 e rimandate, forse, a maggio 2018. Un alto tasso di disoccupazione (35% nelle zone rurali), un rilancio economico inesistente, una classe politica ancora troppo corrotta e un progressivo aumento dei prezzi sui beni di prima necessità: questi sono i principali problemi della Tunisia a sette anni dalla rivoluzione dei gelsomini.
La mancanza di prospettiva per i giovani fa aumentare considerevolmente la minaccia di una deriva jihadista all’interno del paese. Dopo i tre terribili attentati del 2015, il Museo del Bardo di Tunisi (marzo), il resort di Sousse (giugno) e l’assalto ad un convoglio della Guardia presidenziale a Tunisi (novembre), il paese sta attraversando un periodo di relativa “stabilizzazione e calma”, secondo le parole del primo ministro tunisino Youssef Chahed.
Intervistato riguardo al dibattito sul rientro dei foreign fighters (5mila i giovani del battaglione “tunisino” nelle truppe del califfato) , il primo ministro ha dichiarato che “la minaccia del terrorismo persiste, ma il dispositivo delle forze di sicurezza ha acquisito una notevole esperienza ed efficacia, puntando allo smantellamento preventivo delle cellule terroriste”. Nonostante i progressi e la “relativa calma” i gruppi jihadisti, favoriti e sostenuti in passato dallo stesso partito islamista Ennahdha, restano una minaccia continua con oltre 800 persone nelle carceri tunisine.
“Le riforme in campo politico, economico e sociale, soprattutto nelle zone rurali del paese, sono il nostro unico mezzo per mantenere vive le conquiste di sette anni fa, per contrastare il terrorismo jihadista e per far crescere la Tunisia con i suoi giovani”, ha concluso Hammami riguardo al futuro del paese.
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