Secondo Emmanuel Macron, la Francia è un paese di sogno, un paradiso gastronomico e culturale con al centro la più bella città del mondo. I suoi castelli, le sue vigne, i suoi appartamenti di lusso sono in vendita. Posseggono quel fascino aristocratico che impressiona i nuovi ricchi della Terra, i newcomers digitali come Mark Zuckerberg, che promette di fondare la prima filiale europea di Facebook fra Parigi e Saint Tropez.
Il 22 gennaio il presidente ha convocato alla reggia di Versailles, simbolo dell’assolutismo e di un’aristocrazia onnipotente, il suo primo ministro, Edouard Philippe, accompagnato da ben 16 ministri, per accogliere i boss di Google, Facebook, Goldman Sachs, Mitsubishi, Samsung, Novartis e un altro centinaio di esponenti dell’élite economica e finanziaria mondiale in partenza per il World Economic Forum dei più ricchi e dei più belli di Davos. Macron srotola il tappeto rosso agli investitori globali. Non è forse vero che la Loi Travail, da lui imposta per decreto quest’estate, riduce i diritti di lavoratori e sindacati ? E che che la legge «antiterrorismo» garantisce «ordine e sicurezza»?
Macron vanta 3,5 miliardi di investimenti esteri nei prossimi 12 mesi e la creazione di 2.200 posti di lavoro (mentre Carrefour annuncia quasi 5.000 licenziamenti!). Segnala alla perfida Albione che la Francia è pronta a prendere il suo posto al centro del mercato finanziario. Che ha ormai le carte in regola per concorrere perfino con il potente vicino germanico, alle prese da quattro mesi con una difficile gestazione governativa. La «trasformazione sociale» avviata, con il contributo determinante dell’allora ministro delle Finanze Macron, da François Hollande, con 40 miliardi di alleggerimenti fiscali al padronato fra il 2012 e il 2017, è ormai in fase avanzata.
Macron, che rimpiange «il vuoto lasciato dall’assenza della figura del re», fa di Versailles uno strumento della sua diplomazia, mettendovi in scena il suo potere e quello (supposto) della Francia. Lo ha già fatto con Putin e con Trump. Nell’immaginario di molti macronisti, Versailles è, come il Louvre, il luogo della legittimità politica. Come Luigi Filippo con Carlo X, Macron ha «ucciso suo padre». L’ex allievo dei gesuiti sa che la sua elezione è stata il frutto di un concorso di circostanze. E’ in cerca di un posto nella storia. Nulla di strano, dunque, se i colloqui fra lorsignori per questa specie di mini-Davos si concludono, lontano dalle telecamere, con un pranzo di gala preparato dallo chef Alain Ducasse, francese con cittadinanza monegasca, nella Galleria delle Battaglie, che ripercorre quindici secoli di successi militari francesi illustrando ben 33 eroici combattimenti. Unica lingua ufficiale: l’inglese.
Of course.
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