Dopo Mosca è la volta di Parigi. I Ministri sudcoreani stanno bussando alle porte di alcune capitali occidentali in cerca di consensi alla propria politica circa il programma nucleare della Corea del Nord. A Parigi, dove è giunto ieri e si tratterrà fino a domani, il Ministro della difesa di Seoul, Han Min Goo, sta discutendo anche della collaborazione militare tra Francia e Corea del Sud.
Lunedì scorso, a Mosca, il ministro degli esteri, Yun Byung Se e il suo omologo, Sergej Lavrov, avevano definito “inammissibile la trasformazione della regione in una piazzaforte di confronto”. “Abbiamo confermato l’impegno per la denuclearizzazione della penisola coreana e sottolineato” di ritenere “inaccettabile l’autoproclamato status nucleare della Corea del Nord”, aveva detto Lavrov nella conferenza stampa finale. Il Ministro degli esteri sudcoreano aveva detto che Mosca e Seoul hanno rilevato come “il quarto esperimento nucleare e il lancio di missili da parte della RPDC costituiscano una minaccia alla sicurezza della comunità internazionale”. Mettendo l’accento sulla collaborazione economica tra i due paesi, soprattutto nelle aree estremorientali e nell’Artico, particolare rilievo era stato dato alla possibilità di una zona di libero commercio tra Corea del Sud e paesi dell’Unione Economica EuroAsiatica che, con una popolazione di 182,7 milioni di persone un PIL complessivo di 2,2 trilioni di $, riunisce Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizija e Russia.
A nord del 38° parallelo, invece, il Presidente della Corea del Nord, Kim Jong-Un, durante una visita all’Università della difesa nazionale lo scorso 13 giugno, ha esortato il paese a prestare particolare attenzione allo sviluppo della tecnologia militare e ha dichiarato che il Partito del lavoro trasformerà tale Università in uno dei più prestigiosi istituti superiori del paese. Il risalto dato dai media nordcoreani al discorso di Kim non è casuale. A proposito della questione nucleare e dell’accresciuta tensione, in generale nell’area del Pacifico e, in particolare, nella penisola coreana, nei giorni scorsi il vice Ministro degli esteri, Kung Sok Ung aveva detto chiaro e tondo che la Corea del Nord imputa tale inasprimento al corso aggressivo degli Stati Uniti e che la RPDC difenderà pace e sicurezza nella penisola coreana contando sulle proprie forze. Forse non a caso Kung aveva pronunciato quelle parole in una sede e in una circostanza significative: l’ambasciata russa a Pyongyang, al ricevimento offerto alla vigilia della Festa della Russia del 12 giugno. “Nel quadro della strategia tesa a raggiungere il dominio mondiale” aveva detto Kung, “Washington sta allargando la presenza militare in Corea del Sud e conduce una politica di ricatto nucleare e di minacce nei confronti della Corea del Nord”. La risposta di Pyongyang è quella dello “sviluppo economico parallelamente al rafforzamento del potenziale nucleare”. “Mosca è tuttora convinta”, aveva ribattuto l’ambasciatore russo Aleksandr Matsegora, che “i colloqui a 6 di Pechino rimangano la strada migliore e invita tutte le parti ad attivizzare gli sforzi per la loro ripresa”.
Ma non sembra essere questa la strada scelta dagli altri soggetti regionali. Lunedì scorso, l’organo del Partito del lavoro della RPDC, il Rodong Sinmun, poneva l’accento sul “carattere pericoloso” dell’asse Washington-Seoul-Tokyo che, nel corso del recente 15° Asia Security Summit, a Singapore – l’incontro di tutti i Ministri della difesa dei paesi della regione, USA compresi, naturalmente – “si sono pronunciati congiuntamente per l’inasprimento delle sanzioni contro Pyongyang, in risposta al suo programma missilistico-nucleare e si sono anche accordati per manovre militari congiunte con il pretesto della “minaccia da Nord”. Secondo il quotidiano nordcoreano, gli Stati Uniti intendono “usare la Corea del Sud e il Giappone come forze d’assalto per accrescere la pressione militare e politica sulla RPDC e con ciò stesso preparare il terreno per invaderla”. In particolare, ha suscitato indignazione al Nord la decisione sudcoreana di cooperazione militare con il Giappone che “è il nemico giurato della nazione coreana”. Mentre non ci sono state ancora reazioni ufficiali di Pyongyang alle esercitazioni stamani (la differenza oraria col nostro meridiano è di 7 ore) di 1.200 fanti di marina sudcoreani nelle immediate vicinanze della cosiddetta Linea di demarcazione settentrionale, il confine tra Nord e Sud sul mar Giallo, stabilito unilateralmente dagli USA nel 1953 e non riconosciuto dalla RPDC dato che, diversamente dalla frontiera terrestre, è rivolto verso nord e ingloba alcune isole rivendicate da Pyongyang.
A differenza delle aperture e degli inviti al dialogo, specialmente in campo militare (peraltro sinora respinto da Seoul, che anche ieri è tornata a chiedere come primo passo la rinuncia di Pyongyang al programma atomico) delle settimane scorse, ora Pyongyang sottolinea come la strada del dialogo tra Nord e Sud sia al momento “completamente bloccata e il pericolo di guerra nella penisola coreana si accresca di giorno in giorno, come risultato della politica del confronto delle autorità della Corea del Sud”. Tutto ciò, scrive il Rodong Sinmun “rivela chiaramente, ancora una volta, sia la natura spregevole del fantoccio sudcoreano, preso dalla pazzia sanguinaria amuck e dal confronto nord-sud, sia le sue mosse per innescare una guerra contro il nord, aggrappato alle falde di estranei e con le spalle voltate alla nazione”.
In generale, non pare che il clima delle ultime settimane sia il più appropriato alle celebrazioni, previste a Nord e a Sud in questi giorni, del 16° anniversario dello storico summit tra gli ex leader dei due paesi, il sudcoreano Kim Dae Jung e il nordcoreano Kim Jong Il, durante il quale fu firmata una dichiarazione congiunta per una soluzione autonoma sulla riunificazione e per la continuazione del dialogo. Anche perché la tensione tra Seoul e Pyongyang si salda a quella più generale del mar Cinese Meridionale. A conclusione del summit tra i Ministri degli esteri dei paesi dell’Asean e della Cina, tenutosi a Kunming (nello Yunnan) il 13 e 14 giugno, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico ha chiesto alla Cina di non estendere la militarizzazione dell’area, soprattutto delle isole artificiali, pronunciandosi per la “libertà di navigazione e di volo” e la soluzione delle dispute territoriali, che vedono la Cina contrapposta in particolare a Brunei, Viet Nam, Malesia e Filippine. I contrasti più acuti riguardano lo stretto di Malacca, attraverso cui transita il 60% del commercio cinese e l’80% delle sue importazioni di idrocarburi. Anche oggi Tokyo ha protestato per lo sconfinamento di una nave da guerra cinese nelle acque territoriali giapponesi, in prossimità dell’isoletta di Kutiroerabu, nella prefettura di Kagosimaga. Lo scorso 9 giugno, una fregata lanciamissili cinese era penetrata nella cosiddetta “zona cuscinetto” dell’isola di Senkaku, nel mar Cinese Orientale, un’area che Tokyo annovera tra le proprie acque territoriali, ma che Pechino considera territorio illegalmente occupato dal Giappone.
Un’altra area di tensione, dunque, in cui le pedine di Washington stanno manovrando per abbrancare quella supremazia economica e militare che gli USA sentono sfuggir loro di mano.
Fabrizio Poggi
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