La campagna elettorale del presidente egiziano Al-Sisi, una corsa volutamente solitaria, si colora di rosso sangue. Quello di nemici jihadisti fatti fuori dall’esercito nella settimana dell’operazione antiterroristica lanciata il 9 febbraio al Cairo. Sedici miliziani, o presunti tali, sono stati eliminati nella penisola del Sinai, dove risultano arrestate anche un centinaio di persone. La linea della sicurezza è un refrain con cui da quattro anni il generale che ha spodestato il presidente islamista Morsi si fa bello, ma non altrettanto forte. La linea della forza l’ha riversata contro giornalisti e oppositori politici incarcerati e fatti sparire in ogni modo. Il Sinai, invece, è l’area dove una componente jihadista intende creare una sorta di nuovo Califfato, dopo la perdita di Mosul e Raqqa. L’attentato di fine novembre nella moschea Al-Rawdah, con oltre trecento vittime, ha introdotto un incubo per nulla svanito nonostante la battente propaganda governativa. Del resto l’area desertica del Sinai ha sempre rappresentato una spina nel fianco del potere cairota, anche in altre epoche. In più, le promesse securitarie di Sisi non riescono a intaccare una presenza che si maschera e mescola a carovane di beduini e trafficanti della regione. Intanto l’avvicinamento al voto del 26 marzo, che deve ribadire lo strapotere del regime, è da due mesi purificato da ogni possibilità di alternativa. Lo staff presidenziale ha lavorato per far terra bruciata attorno a qualsiasi candidatura.
A fine anno è caduta quella d’un feloul come Shafiq, bloccato ai domiciliari negli Emirati Arabi e poi ‘convinto’ a desistere dal desiderio di presentarsi (Shafiq aveva perso per 900.000 voti lo scontro presidenziale con Morsi nel 2012). Quindi sono state vietate o impedite con l’arresto le proposte di ex militari: Sami Anan, Ahmed Konsowa. Lo stesso nipote dell’ex presidente Sadat, Mohamed Anwar, e il noto avvocato Khaled Ali, hanno rinunciato, considerando sleale il clima della corsa elettorale. Insomma si è assistito a una sequela di arresti e aggressioni verso chiunque fosse sfiorato dall’idea di lanciarsi nella disfida. Di recente c’è stato un micro cambiamento: la gara solitaria è stata valutata disdicevole per il presidente uscente, così è stato ammesso un candidato di comodo: Moustafa Moussa (El-Ghad Party), uomo fedele alla lobby militare che farà da punching-ball, offrendo una parvenza di confronto politico al monologo autoritario di Sisi. Accanto alla scontata riconferma di quest’ultimo, il regime cerca d’inseguire una credibilità numerica che già in occasione dell’elezione del 2014 venne inficiata da sospetti. Allora Sisi ottenne 23.780.000 consensi, mentre Sabahi si fermò a 757.000. La percentuale ufficiale degli elettori fu del 45%, ma secondo alcuni osservatori internazionali il voto reale s’aggirava attorno al 15% degli iscritti alle urne, dunque quei milioni erano gonfiati.
Si voleva eguagliare la partecipata sfida del 2012 fra Morsi e Shafiq che dopo decenni di astensionismo aveva riportato al voto oltre il 52% degli egiziani. Il recente repulisti di candidati ripropone un vecchio sistema, seppure un politico di lungo corso come Aboul Fotouh, che in un’intervista ad Al Jazeera ha annunciato il boicottaggio elettorale da parte del suo schieramento (Strong Egypt Party), nella stessa ha affermato: “Anche Mubarak era un dittatore, ma capiva che mostrare la disputa politica costituiva uno sfogo per la popolazione”. Accanto al lavoro securitario sporco praticato dall’Intelligence e da varie strutture poliziesche locali s’aggiunge il contributo di una magistratura affidata ormai solo a uomini del regime, gli stessi che evitano o insabbiano indagini sulle sparizioni di oppositori (oltre 60.000), operatori umanitari, giornalisti o ricercatori, come nell’omicidio Regeni. La scorsa settimana alcuni pubblici ministeri hanno cercato d’incastrare tredici operatori del ‘Movimento civile democratico’, ovviamente accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Quest’alibi, grazie al quale si perpetuano i maggiori misfatti di una dittatura strisciante, non è oggetto di discussione della campagna presidenziale né nei dibattiti interni né nelle interrogazioni della geopolitica internazionale. L’Egitto è attanagliato dalla spirale antica di terrore, silenzio, sudditanza. E così andrà alle urne.
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