Il trentesimo summit dell’Unione Africana (UA) tenutosi ad Addis Abeba a fine gennaio ha avuto un seguito.
Qualche giorno fa, in Ruanda, è stato siglato un accordo che da il via libera a una zona di libero scambio in Africa. Protagonisti i leader di Ruanda (Kagame) e quello del Ciad (Faki).
Il primo aveva presieduto il vertice di Addis Abeba, il secondo presiede invece la Commissione dell’Unione.
Come sempre accade in questi casi il diavolo potrebbe nascondersi nei dettagli; più precisamente andrebbe visto chi ci guadagna e chi ci rimette, o comunque teme che i danni superino i benefici.
Non basta infatti sottolineare che, sulla carta, gli scambi economici in atto tra le nazioni africane rappresentano meno di 1/5 del totale e che quindi l’operazione pare effettivamente in grado di ridurre la dipendenza dei paesi dai finanziamenti internazionali.
A cancellare il dubbio che tale operazione possa essere magari bypassata con qualche escamotage dai paesi più ricchi sarebbe allora ancora più interessante l’adozione concreta di un altro provvedimento, previsto nel quadro di una riforma più generale, volto ad introdurre una tassa dello 0,2% su determinate importazioni, al fine di potenziare l’autonomia economica della UA.
Resta peraltro il nodo politico. Anche se ben 44 paesi hanno aderito all’accordo, su di esso pesa come un macigno il fatto che se ne sia tirata fuori la più consistente potenza petrolifera del continente, la Nigeria, timorosa che una accentuata concorrenza dei vicini indebolisca la crescita di un Pil peraltro accompagnato da pesanti diseguaglianze.
Ma anche l’assenza di altre nazioni è indicativo di come i problemi del continente siano lontani da un decisivo punto di svolta e che la loro natura politica sia in grado di neutralizzare all’atto pratico i benefici del provvedimento adottato il 21 marzo.
A parte dunque i timori della potenza nigeriana, vediamo che negli altri paesi che si sono rifiutati di firmare è ricorrente una situazione di guerra e di miseria. Esemplare la situazione della Sierra Leone che, appena uscita dalla pestilenza dell’Ebola, si è trovata a fare i conti con gli scontri militari di chi è interessato alla appetitosa consistenza diamantifera del paese. E di diamanti è ricca pure la Namibia, altro paese non sottoscrittore, che evidentemente preferisce far da sé.
Un paese ai confini con le emergenze belliche è il Burundi (anche lui non sottoscrittore), che risente della vicinanza con il Congo e le sue tragedie infinite.
D’altronde, anche tra chi ha sottoscritto l’accordo, è pensabile che i così detti “dolci costumi” del commercio internazionale, evocati da Montesquieu, siano in grado di sopire il fragore delle armi (come nella Repubblica Centroafricana e nel Congo medesimo)? O non avverrà piuttosto che, altrove, il libero mercato possa innescare inizialmente una aspra competizione non violenta destinata però sul lungo periodo a ripercussioni di ordine militare, magari sobillate da qualche ex colonizzatore dell’occidente già presente su molti territori in assetto armato e con ripetute ingerenze.
E infine, sarà possibile in questo modo rompere l’isolamento di un paese alla fame come l’Eritrea, sempre al vertice nel numero di migranti che cercano protezione in Italia; ancora dentro ai meccanismi della guerra, sia pure fredda, con l’Etiopia, oltre che leader nella violazione dei diritti umani,? Oppure il suo ruolo di Corea del Nord africana, lo spingerà a trovare partnership non raccomandabili di altro genere, come pare stia già facendo coi sauditi?
Tutti interrogativi che la svolta recente della UA lascia aperti. Con un briciolo di ottimismo si potrebbe pensare che l’accordo possa comunque servire a smuovere le acque di una situazione mefitica e paludosa.
Ma incombe sulla previsione degli ottimisti il giudizio tagliente che della UA fornisce Domenico Quirico. Il giornalista de La Stampa, già sequestrato dall’Isis e conoscitore della zona, che dell’Unione e della sua gestione dice peste e corna, sottolineando la diffusione al suo interno di macroscopici fenomeni di corruzione e ritenendola subordinata a interessi che poco hanno a che fare con quelli delle genti che dovrebbe tutelare.
Peraltro, anche di corruzione il summit aveva discusso, facendo i conti coi dati di Transparency International che indicano la Somalia, il Sud Sudan, la Libia e la Guinea Bissau, rispettivamente ai posti n. 176, 175, 170, e 168 in materia, vale a dire tra i più corrotti al mondo.
La speranza è venuta da Botswana,(n.35), Capo Verde (38) e Maurizio (50), i paesi meno corrotti del continente; una speranza che l’esempio dia i frutti desiderati da chi ama l’Africa.
* da https://www.alganews.it.
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