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L’Argentina torna in piazza contro il Fmi e il governo Macrì

Al grido di “NO all’FMI” ieri e l’altro ieri gli argentini sono scesi in piazza in segno di protesta contro la decisione di Macri di chiedere un nuovo prestito-capestro al Fmi.

La nuova crisi finanziaria sta riaprendo vecchie ferite per gli argentini con il peso, sotto la minaccia dell’iper inflazione e un presidente Mauricio Macri che chiede aiuto al Fondo Monetario Internazionale.

Ma la condizione per far sì che l’Argentina ottenga il prestito dal Fmi è che raggiunga una serie di obiettivi economici, sul fronte dell’inflazione e della politica monetaria. I tassi di interesse sono stati portati in pochi giorni al 40% proprio per impedire una svalutazione del peso (-20% nel 2018) e mettere un freno alla fiammata dei prezzi al consumo. Il costo della vita per le famiglie è cresciuto del 30% da gennaio.

L’ultima volta che l’Argentina aveva concluso un accordo di standby con il Fmi è stato quasi 20 anni fa quando il tasso di disoccupazione del paese era salito al 20 per cento, i salari si erano brutalmente ridotti e la gente aveva ritirato grandi somme di pesos dai propri conti bancari per cambiarli in dollari USA.

Il presidente Macri, ultraliberista eletto nel 2015, martedì ha annunciato l’intervento del Fmi parlando di una mossa che contribuirebbe a “evitare una crisi come quelle che abbiamo affrontato prima”, aggiungendo che “ci permetterà di rafforzare il nostro programma di crescita e sviluppo”.

Ma agli argentini non è andata proprio giù e secondo un sondaggio tre su quattro sono contrari al prestito esterno. E giovedi e venerdi sono scesi in piazza davanti al Parlamento per dirlo chiaro e tondo.

Si va delineando così il momento peggiore dell’attacco neoliberale del macrismo in una questa Argentina di nuovo alle prese con una crisi finanziaria e il boom dell’inflazione. Il presidente Macri ha annunciato che ha già concordato con la signora Lagarde affinché il FMI, con la “generosità” che lo caratterizza, presti al paese circa 30 miliardi di dollari o, se serve, ancora di più.
E’ il colpo finale per tornare, senza la necessità di una macchina del tempo, al temuto anno 2001, quando, non a caso, prevalse per l’economia uno degli ultimi consiglieri dell’attuale governo, Domingo Cavallo, che caccià il paese in un recinto di espropriazione e saccheggio.
In soli due anni, l’uomo che aveva promesso durante la sua menzognera campagna elettorale, che l’inflazione sarebbe caduta e le cifre occupazionali sarebbero state rispettate, è riuscito ad aumentare il debito estero del 35% e, senza contare che con l’attuale prestito, più altri fatti negli ultimi quattro mesi, si era già arrivati ​​all’inizio dell’anno alla cifra di 307 miliardi di dollari, che rappresentano il 56% del prodotto interno lordo dell’Argentina. Non solo, il rischio paese è aumentato nelle ultime ore fino a 485 punti base e ha superato i precedenti massimi.
La finanza creativa del governo macrista un anno fa, in un altro dei giochi tipici del debito compulsivo, aveva visto il governo annunciare l’emissione di un prestito obbligazionario di 2.7 miliardi di dollari per 100 anni. Quell’assurdità fu difesa con il solito sarcasmo dal capo di stato maggiore, Marcos Peña, che in quell’occasione disse: “Il mondo si fida di noi”.
Occorre ricordare ora più che mai che l’Argentina viene da una cessazione dei pagamenti unilaterali dal 2001 e che questa nuova rinuncia alla sovranità, chiesta in ginocchio al FMI,  apre la porta ad una situazione che a breve termine rischia di diventare insostenibile per lo stesso governo.

In effetti, in questi giorni diverse agenzie di rating finanziario, come nel caso di Moody’s, hanno messo in guardia sulle turbolenze nel futuro economico argentino e indicano come responsabile di questa situazione le politiche realizzate dal presidente Macri. La stessa valutazione fanno altri organi di informazione economica, come The Sunday Times, Financial Times, Fitch e Forbes, i quali sono gli stessi che nel 2017 avevano applaudito le “audaci” imprese del presidente Macrì.
Oggi in Argentina ogni 6 minuti viene licenziato o sospeso un lavoratore, in soli due anni la cifra è di circa 300mila persone rimaste senza lavoro, mentre altre 150mila sono a rischio da qui per anno.
Nello scenario delle piccole e medie imprese, l’attuale politica economica ha costretto a chiudere le sue porte a circa diecimila stabilimenti. Come nel 2001, oggi chiunque circoli per le strade della Capitale potrà osservare numerosi cartelli “sell” o “rent”. Si tratta di aziende che fino al 2015 non stavano nuotando nella prosperità ma potevano tenere aperta l’attività e dare lavoro. Se consideriamo che questo settore del mercato del lavoro copre circa il 75% del lavoro registrato, non sorprende che oggi migliaia di questi lavoratori siano stati lasciati per strada. Tra le ragioni del crollo delle PMI vi sono gli aumenti che vanno dal 500 al 1000% delle tariffe dell’elettricità, del gas e dell’acqua, ma anche l’apertura indiscriminata delle importazioni, che ha lasciato molti imprenditori incapaci di competere. Per non parlare poi dei più umili con salari minimi o dei pensionati che devono compiere vere e proprie imprese per sopravvivere, e non sempre ci riescono.
Se tutto questo si aggiunge al fatto che negli ultimi dodici mesi, il tasso annuo di inflazione reale supera il 30% (il governo fissa invece questa cifra al 25%) e che l’aumento dei prezzi da metà del 2017 non si è più  fermato, non sono pochi coloro che di fronte al nuovo annuncio macrista su un prestito dal Fmi ritengono che il boom dei prezzi sarà superlativo nei prossimi mesi.

Fonti: Resumenlatinoamericano; Wall Street Journal

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