La svolta politica c’è ed è netta. Amlo – Andrés Manuel López Obrador, leader storico della sinistra messicana – ha vinto le elezioni politiche in modo schiacciante, con il 53% dei voti. Come in altre due occasioni i sondaggi gli attribuivano una larga vittoria, ma stavolta i brogli non sono stati tali da impedire una vittoria annunciata. E’ il segno della crisi che la colpito le classi dirigenti iper-corrotte e legate ai narcos che hanno guidato il paese da quasi un secolo a questa parte.
La svolta economica e sociale potrebbe avvenire, ma bisognerà vedere in che misura. Il Messico è infatti membro del Nafta, il “mercato comune” con Stati Uniti e Canada che ne ha castrato per decenni le possibilità di sviluppo, nonostante riserve petrolifere un tempo assai alte e oggi in progressiva riduzione.
Per ottenere il via libera da una parte della “classe dirigente” messicana, Obrador ha dovuto annacquare non poco il suo programma politico, incentrato comunque sulla parola d’ordine “prima i poveri”. Se n’è avuta una dimostrazione con le prime dichiarazioni successive alla resa dei suoi due prinicpali concorrenti – il candidato del partito al governo (Pri), José Antonio Meade, e Ricardo Anaya, che guidava una coalizione destra-sinistra con il Pan e il Prd, rispettivamente terzo e secondo.
La patria viene prima di tutto»; «Il nuovo progetto della nazione punterà a stabilire una democrazia autentica, ma non vogliamo costruire una dittatura né aperta, né coperta. I cambiamenti saranno profondi, ma avverranno nel rispetto dell’ordine legale stabilito. Ci sarà libertà di impresa, di espressione, di associazione e di religione. Si garantiranno tutte le libertà individuali e sociali, così come i diritti civili e politici consacrati nella nostra costituzione»; «il nuovo governo manterrà la disciplina finanziaria e fiscale. Si riconosceranno gli impegni presi con le imprese, le banche nazionali e straniere», anche se «i contratti del settore energetico saranno rivisti, per prevenire atti di corruzione e illegalità».
Del resto Amlo sa meglio di chiunque altro, in Messico, che vincere le elezioni è solo una piccola parte del problema. La partita politica, da quelle parti, non si è giocata quasi mai soltanto sul piano del consenso popolare, ma quasi sempre su quello più brutale dei rapporti di forza militari. E Amlo non è Chavez, a partire dal fatto che il secondo poteva contare sulla fedeltà di gran parte dell’esercito…
Obrador ha dunque garantito che «non attueremo il programma in maniera arbitraria, né ci saranno confische o espropriazioni di beni», per tranquillizzare al massimo possidenti, imprese, multinazionali. Ossia chi tiene di fatto in mano i cordoni (i “cappi”) del potere finanziario, assai più volatile di quello industriale, e soprattutto il “combinato disposto” tra forze dell’ordine, esercito, squadroni della morte e narcotrafficanti; spesso indistinguibili l’uno dall’altro, specialmente ai vertici.
La prudenza di Amlo, insomma, non è una “questione ideologica”… La vera sfida del cambiamento sociale riparte in tutta l’America Latina, contrastando quella che sembrava una inarrestabile rivincita da parte dell’imperialismo statunitense (la caduta “processuale” dei governi progressisti in Argentina, Brasile, Paraguay, ecc). Ma non è – non è mai stato – “un pranzo di gala” da misurare soltanto col metro della “rivoluzionarietà” immediata degli atti del nuovo governo.
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