Il partito conservatore sembra entrato da tempo in una crisi irreversibile dopo il referendum sulla Brexit, in cui si sommano e sovrappongono lo scontro politico tra soft e hard brexiters, e lo scontro personale per chi siederà sul “Trono di Spade” tra Theresa May e il caustico ex sindaco di Londra, il dimissionario ministro degli Esteri Boris Johnson.
Questa situazione ha precisi risultati sulla perdita di credibilità di fronte all’elettorato dei conservatori. come sembrano dimostrare i recenti sondaggi; i Tories sono incapaci di trovare una quadra al loro interno o semplicemente di far prevalere una delle due ali, e di articolare realmente una trattativa con Bruxelles, comunque parecchio restia ad accettare anche l’ultima ipotesi di proposta avanzata dalla May.
Questa proposta ha incontrato l’ostilità dell’ala oltranzista del suo partito, ed è stata più frutto di un tentativo disperato di trovare un compromesso interno e di uscire dall’empasse, sotto la pressione del Labour e di Bruxelles, che non la tappa di una strategia politica precisa assente da tempo immemore in casa tories, fin dalla scelta scellerata di Cameron di andare ad elezioni anticipate che hanno visto un exploit del New Labour di Corbyn e la fine della leadership del politico conservatore britannico.
La soft brexit di cui ha parlato ”The Economist” in un recente articolo, che riavvicinerebbe la Gran Bretagna al continente, rimane ancora una ipotesi legata a parecchie variabili.
Come ha ricordato venerdì scorso il capo-negoziatore dei Ventisette, Michal Barnier: prima di iniziare un accordo di partenariato bisogna completare l’intesa di divorzio. Che la Brexit sia un vero e proprio rompicapo che i conservatori non hanno saputo gestirlo all’altezza dovuta, lo ha detto implicitamente lo stesso D.Tusk, presidente del Consiglio Europeo con un tweet, affermando che: i politici vanno e vengono ma i problemi che hanno creato restano. Il caos provocato dalla Brexit è il problema più grande nella storia delle relazioni tra l’Unione Europea e il Regno Unito, ed è ancora molto lontano dall’essere risolto, con o senza il signor Davis, riferendosi a David Davis il ministro incaricato di negoziare l’uscita dell’Unione Europea, ora dimissionario .
Dal canto suo Jean-Claude Juncker ha ironizzato sulla grande unità del governo inglese.
I tempi stanno stringendo e l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione è prevista per la mezzanotte del 29 marzo 2019, cui seguiranno 20 mesi in cui UK e UE dovrebbero negoziare un accordo di partenariato. Durante questo periodo di transizione le linee guida dovrebbero essere dettagliate in un Libro Bianco questo giovedì.
Rimane comunque la massima indecisione considerato che, come fa notare Beda Romano, corrispondente da Bruxelles per il Sole-24Ore: “l’eventuale caduta del governo May rischierebbe di mettere in discussione molti degli aspetti decisi finora”.
Un quadro quindi tutto meno che definito se non nel moltiplicarsi delle sue variabili…
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C’è un aspetto non secondario pressoché ignorato dalla stampa italiana sulle paure che si celano dietro la Brexit da parte della UE, cioè che questa possa costituire indirettamente l’indicazione per una possibile uscita “a sinistra” dall’Unione Europea, divenendo un pericoloso precedente soprattutto in vista delle elezioni europee del prossimo anno, dove sta prendendo progressivamente forma la configurazione di una forza transnazionale come “E Ora il Popolo” che fa della rottura dei trattati in chiave progressista il fiore all’occhiello della sua proposta politica.
Sia detto chiaramente, si è consci delle varie sensibilità e sfumature interne al Labour rispetto alla configurazione di rapporti con la UE, ma è altresì chiaro come il programma del Labour di Corbyn metta in discussione radicalmente le fondamenta politiche economiche dell’Unione e come all’interno di questa cornice non potrebbe essere concretamente realizzato dentro la gabbia giuridica dell’Unione (sorvolando su aspetti non secondari come la questione immigrazione e la politica estera)
Un articolo di Bruno Waterfield, navigato corrispondente politico a Bruxelles, pubblicato sul “The Times”: Fear of Jeremy Corbyn-led government prompts tough EU line on Brexit, del 7 maggio scorso, dà una interpretazione interessante dell’atteggiamento risoluto che i policy makers della UE stanno tenendo nei confronti delle trattative sulla Brexit.
In sostanza, il timore che aleggia a Bruxelles è quello di trovarsi di fronte ad una Gran Bretagna con una maggioranza governativa non più in mano ai conservatori, ma ai laburisti, che nelle intenzioni dell’attuale leader attuerebbero tutta una serie di politiche che nuocerebbero alle élites europee; tra le quali il sostegno pubblico al settore industriale nazionale e la “pubblicizzazione” di una serie di settori strategici, come il comparto energetico per esempio, entrambi fattori che lederebbero gli interessi del blocco di potere dominante a livello continentale.
L’articolo basato sulle dichiarazioni di anonimi funzionari “di lungo corso” della UE, mette in risalto come non siano tanto i “conservatori” quanto “i nuovi laburisti” a costituire un pericolo per le élites europee.
Altri tre dati sembrerebbero corroborare questa tesi.
Un primo dato riguarda la grande capacità del Labour, dopo il referendum sulla Brexit (per cui il partito si era espresso per il remain) e dopo l’ottimo risultato elettorale, di disinnescare la marea xenofoba e razzista montante, sfruttata sapientemente dall’UKIP di Farage (poi azzerato dalla competizione elettorale) e dai conservatori, re-indirizzando la profonda delegittimazione delle élites non verso la guerra dei penultimi contro gli ultimi, ma contro i responsabili politici ultimi, cioè i conservatori, che hanno portato:
Il più lungo periodo di abbassamento delle retribuzioni da quando hanno cominciato ad essere statisticamente registrate, coloro che si sono trovati senza casa sono raddoppiati, l’allungamento delle liste d’attesa del Sistema Sanitario Nazionale di coloro che sono bisognosi di cure mediche, le classi scolastiche hanno aumentato il numero dei suoi componenti e gli insegnanti lasciano il loro lavoro, più di 4 milioni di bambini vivono sotto la soglia della povertà, […] il taglio di 11.000 pompieri, più persone che lavorano e sono sotto la soglia di povertà come mai prima d’ora
Come ha dichiarato Jeremy Corbyn nel suo comizio finale al congresso del Labour di Brighton lo scorso settembre. (https://contropiano.org/documenti/2017/10/10/never-kissed-tory-cammino-accidentato-della-brexit-ed-socialismo-del-xxi-secolo-jeremy-corbyn-096509 )
Di fatto, il Labour non ha lasciato il tema della “sovranità popolare” alle altre formazioni politiche e l’ha declinato con un forte accento di inclusione rispetto alla forza lavoro multinazionale che risiede in Gran Bretagna, e con una altrettanto forte battaglia per i diritti civili (si pensi a come è stato connotato il Pride dai laburisti) e per “le minoranze”, dimostrando come sia possibile la coniugazione di questi temi che, se sapientemente intrecciati, riescono da un lato a portare avanti vere e proprie “battaglie di civiltà” che si inseriscono nel solco delle istanze più avanzate e dei valori della working class, fieramente rivendicati da Corbyn, e permettono un allargamento del consenso, disinnescando l’arma della guerra tra poveri.
Come riporta un interessante studio sul fenomeno, la percentuale di persone che nominano l’immigrazione come uno dei primi tre più importanti problemi che affronta il Regno Unito è precipitata dal 50% del prima referendum al 20% attuale (https://medium.com/@robfordmancs/how-have-attitudes-to-immigration-changed-since-brexit-e37881f55530).
Diciamo che si tratta di una decisa inversione di tendenza, soprattutto se consideriamo che il tema dell’immigrazione come principale fonte di insicurezza è ormai il Leitmotiv che le élites europee hanno scelto come “arma di distrazione di massa” per “delocalizzare” la sfiducia nell’establishment, accettando di fatto l’agenda politica del gruppo di paesi (Austria, Ungheria, Polonia, Slovenia) e formazioni politiche che hanno costruito la loro ascesa e rendita politica come imprenditori del razzismo, stabilendo definitivamente che neo-liberalismo e razzismo possono tranquillamente andare a braccetto.
Un secondo dato importante è l’appello che Corbyn ha recentemente rivolto alle forze della “sinistra” europea, proiezione sul “fronte esterno” del discorso tenuto ai sindacati durante “Unite The Union”, in cui ha ribadito la centralità del dare rappresentanza politica alle istanze politiche più avanzate della working class, ricordando come questo stesso termine fosse stato espunto dal dizionario politico della sinistra, quasi che la classe fosse scomparsa.
In un articolo di Jon Stone per l’”Indipendent” di alcuni giorni fa, dal titolo significativo – Corbyn tells European social democrats: ‘Reject austerity and neoliberalism or voters will reject you’ – il leader laburista ha esortato i socialdemocratici europei (il termine, in questo discorso, può comprendere forze che non si direbbero tali) a rifiutare l’austerità e il neoliberalismo, altrimenti saranno rifiutati dai votanti. Cosa già avvenuta, del resto, in parecchi paesi…
Il discorso che ha tenuto in Olanda è invece interessante, da un lato, perché mostra i limiti strutturali della politica “di sinistra” in Europa, che ha offerto il fianco al crescere della destra populista e sostanzia gli incubi delle élites di Bruxelles: vedere il primo paese uscito dall’Unione Europea con un referendum imboccare la strada di una “progressive brexit”, invece che un processo gestito dai conservatori:
Il mio messaggio per i nostri partiti fratelli (Corbyn usa il femminile sister parties, ndt) è rifiutate l’austerità o vi troverete ad affrontare il rifiuto dei votanti. Se i nostri partiti sembrano solo una altra parte dell’establishment, che sostiene un sistema economico fallito, disegnato per le élite ricche del mondo economico, saranno rigettati – e i “falsi populisti” e chi sfrutta la questione dei migranti dell’estrema destra riempiranno questo vuoto.
Per il leader del Labour è il tempo del cambiamento per le forze di sinistra che, se non volteranno la pagina delle politiche neo-liberali diventando attrici di questo cambiamento, altri ne approfitteranno; “questo sistema fallimentare ha fornito un terreno fertile per la crescita di una politica xenofoba e del capro espiatorio. Se non offriamo una alternativa chiara e radicale, e una speranza per un futuro migliore e più prospero, le politiche dell’odio e della divisione continueranno ad avanzare nel continente”.
Un terzo aspetto, è stata la celebrazione dei 70 anni del sistema sanitario nazionale, che si è trasformata non solo in un grande momento di orgoglio per le maestranze che hanno lavorato in questo tassello fondamentale del welfare state britannico, ma soprattutto in una denuncia del suo depotenziamento e dei tentativi di trasformare il diritto alla salute in una prerogativa per chi può permetterselo, attraverso la privatizzazione di questo servizio pubblico.
E’ proprio l’NHS che fa gola ai vari attori della “white economy” e, come tutti i servizi ed i beni comuni, la loro privatizzazione è tra la priorità delle politiche della UE.
Che una forza in ascesa come il Labour faccia del mantenimento e del potenziamento del Sistema Sanitario Nazionale il proprio cavallo di battaglia non è proprio ben visto dagli alti piani di Bruxelles…
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In conclusione, se sono i vari sconvolgimenti riguardo alla nuova configurazione di aree-politico economiche che cambiano rapidamente le geografie che si pensava fossero consolidate e la crisi di delegittimazione delle élites politiche successiva e conseguente alla crisi del 2008 (ma la Gran Bretagna era stata, dopo il Cile, il primo banco di prova insieme agli Stati Uniti di Reagan di una rivoluzione “conservatrice” neo-liberale) le ragioni principali dell’incapacità di gestione della brexit da parte dei conservatori, lo spettro di una uscita “a sinistra” impensierisce le classi agiate britanniche quanto quelle continentali, ed i suoi apparati mediatici molto restii a parlare delle politiche del Labour e del suo leader.
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