Tra l’8 e il 12 agosto di dieci anni fa si consumò uno dei conflitti più brevi, ma non per questo meno sanguinosi, della storia recente.
In contemporanea con l’apertura delle Olimpiadi di Pechino e sicuro dell’appoggio militare USA (che, al momento decisivo, non arrivò) l’allora presidente georgiano Mikhail Saakašvili (i lettori di Contropiano lo hanno incontrato spesso nelle cronache degli ultimi quattro anni sui conflitti interni all’oligarchia golpista ucraina) attaccò l’Ossetia del Sud, martellando con artiglierie e razzi “Grad” la capitale Tskhinval, mentre gridava all’aggressione di Mosca e colpiva il contingente di interposizione russo, presente da anni.
Dopo di che, intervennero i reparti della 58° armata russa, che in cinque giorni misero fine all’avventura di Saakašvili di “riconquista della terra” senza l’“inutile popolazione” e Mosca riconobbe l’indipendenza di Abkhazia e Ossetia meridionale. Oggi, quest’ultima ospita una base militare russa, i rapporti diplomatici tra Mosca e Tbilisi sono tuttora interrotti e le due repubbliche autonome sono riconosciute solo da Russia, Nicaragua, Venezuela, Nauru e Vanuatu.
Tamarašeni, Kurty, Kekhvi: furono alcune decine i villaggi dell’enclave georgiana in Ossetia meridionale letteralmente rasi al suolo dalle artiglierie di Tbilisi; ma Mikhail Saakašvili non ha mai risposto, scrive Ekaterina Polgueva su Sovetskaja Rossija, della sua avventura: soprattutto, non ha risposto di fronte allo stesso popolo georgiano. Così come, aggiungiamo, non ha mai risposto dei delitti di peculato e complicità in omicidio per i quali è tutt’oggi ricercato in Georgia.
Guardando però al presente, continua Polgueva, e alle nuove avventure di Saakašvili in terra ucraina, la popolazione del Donbass si chiede perché Mosca non costringa alla pace Kiev, come fece a suo tempo con Tbilisi e, ancora, si domanda se in caso di necessità sarebbe pronta oggi a intervenire in difesa delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk; e come mai Mosca non abbia ancora riconosciuto DNR e LNR, in guerra ormai non da cinque giorni, come l’Ossetia, ma da oltre quattro anni.
In effetti, i primi scontri georgiano-osseti risalivano al 1991 e l’accordo firmato nel giugno 1992 da Eduard Ševardnadze, con l’introduzione in Ossetia meridionale di tre battaglioni di pace (russo, georgiano e osseto), era dettato semplicemente dal timore di dover condurre una guerra su due fronti: Abkhazia e Ossetia. Con il colpo di stato di Saakašvili nel 2003, denominato dai suoi fautori occidentali come “rivoluzione delle rose”, si riaccesero le mire di Tbilisi contro l’autonomia osseta. Nel maggio 2004 il presidente golpista fece occupare dalle truppe l’area destinata alle forze di pace e nella notte tra il 7 e l’8 agosto 2004, dopo 12 anni di tregua, si ebbe il primo martellamento di mortai su Tskhinval. Ma l’esercito georgiano non era preparato per un conflitto: cominciarono allora ad affluire in forze istruttori, dollari e rifornimenti USA.
Nel novembre 2006, il 99,88% della popolazione osseta rispose affermativamente al referendum sulla conservazione dello status indipendente della repubblica; da parte sua, l’allora presidente russo Dmitrij Medvedev si pronunciò per il “rispetto dell’integrità territoriale” della Georgia, quantunque, osserva Polgueva, Tskhinval non avesse mai fatto parte della Georgia “indipendente” proclamata da Zviad Gamsakhurdija, ma solo della Georgia sovietica.
Nel gennaio 2008 la Georgia organizza il blocco dell’acqua potabile contro Tskhinval; a febbraio iniziano sparatorie, attentati e azioni di sabotaggio contro i reparti di pace, che vanno avanti per qualche mese; la missione OSCE, al pari di quanto avviene oggi in Donbass, “non vede” mai da che direzione provengano gli spari. Mentre la “comunità internazionale” riconosce immediatamente l’autoproclamata indipendenza del Kosovo dalla Serbia, gli appelli dell’Ossetia meridionale a ONU, presidenti di Russia e di altre ex Repubbliche sovietiche, UE, cadono nel vuoto.
Il 4 luglio Tskhinval viene bombardata massicciamente; il 5 luglio reparti speciali georgiani evacuano parte della popolazione dai villaggi georgiani dell’Ossetia; il 10 luglio Tbilisi richiama il proprio ambasciatore a Mosca: la visita di Condolezza Rice aveva avuto effetto. La stessa Rice che candidamente dichiarava che il “governo georgiano ha iniziato una grande operazione militare su Tskhinval e altre zone del territorio separatista”.
Per il presente, una nota di gazeta.ru si chiede com’è che all’epoca, nonostante l’aperto intervento russo, non si sia assistito a quell’ondata di russofobia scatenatasi dopo il 2014 per gli avvenimenti in Ucraina e, anzi, il Parlamento europeo avesse allora approvato le conclusioni della Commissione UE, secondo cui “la Georgia aveva iniziato la guerra in Ossetia meridionale. Non c’era stato alcun attacco russo in Ossetia del Sud prima dell’inizio del conflitto”.
In un’intervista di due anni fa, ancora all’apice del firmamento golpista ucraino, lo stesso Saakašvili si era vantato di come proprio l’Ucraina avesse “appoggiato la decisione di attaccare Tskhinval nel 2008”, riconoscendo in tal modo come l’attacco fosse partito dalla Georgia e aveva ricordato come gli ufficiali georgiani fossero stati “addestrati dagli americani”, combattano ora dalla parte di Kiev contro il Donbass e addestrino gli ufficiali ucraini, impegnati a “difendere i valori democratici, fondamentali per gli USA”.
In effetti, nel 2008 l’appoggio di Kiev non era stato solo morale: l’allora presidente Viktor Juščenko aveva concesso “segretamente in affitto” a Tbilisi alcune batterie contraeree “Buk” e “Osa”. Da parte sua, il golpista Porošenko, ripete da qualche anno che “l’attacco della Russia alla Georgia fu il prologo della guerra russa contro l’Ucraina. La politica della pacificazione dell’aggressore ha fatto bancarotta già nel 2008”.
Di fatto, la Georgia ufficiale parla ancora di “occupazione russa” dell’Ossetia meridionale e dell’Abkhazia e, oggi come nel 2008, allorché il summit NATO di Bucarest aveva messo all’ordine del giorno l’ingresso di Georgia e Ucraina nell’Alleanza atlantica, Mosca considera tale prospettiva come una “minaccia alla propria esistenza”. Gazeta.ru scrive che potrebbe verificarsi l’eventualità che Mosca “chiuda gli occhi” nel caso di un ritorno delle due entità autonome nella compagine georgiana, a patto della “garanzia NATO” di una perenne neutralità di Tbilisi.
A occhio e croce: sarà il caso di tentare di convincere qualcuno che a Mosca esista un giornale che crede ancora nelle garanzie NATO?
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