Il Presidente del Sudan Omar al-Bashir è da alcuni giorni messo a dura prova dalle forti proteste di massa che si stanno diffondendo in tutto il Paese. Anni di devastante crisi economica accompagnata da uno scarsissimo investimento pubblico nello stato sociale hanno vistosamente peggiorato le condizioni di vita della gran parte della popolazione.
Il regime di al-Bashir, al potere in Sudan dal 1989, potrebbe avere i giorni contati se le incredibili mobilitazioni popolari di questi giorni – le più conflittuali degli ultimi decenni – sapranno mantenere il legame tra radicalità politica e ampia partecipazione popolare.
Nel 2011 il Sud Sudan (la cui capitale è divenuta Juba) optò per la secessione dal Sudan (con capitale Khartoum) in seguito ad un referendum sull’indipendenza, caratterizzato da un’affluenza del 96% e da un voto favorevole pari al 98,81%.
Il Sudan subì così una mutilazione del 25% del territorio nazionale, riducendo la propria popolazione del 20% e perdendo la maggior parte dei pozzi petroliferi, da quel momento sotto il controllo del nuovo vicino meridionale.
Il volume dei proventi derivanti dalla vendita dell’oro nero precipitarono e così peggiorarono le condizioni di vita di coloro che fino a poco prima avevano giovato delle (poche) ricadute in termini di benessere sociale (soprattutto interventi statali per calmierare i prezzi) e sviluppo infrastrutturale (nuove strade e abitazioni, in modo particolare nei centri urbani situati lungo il fiume Nilo).
Il regime ha cercato di cambiare rotta, distanziando le proprie finanze dalla ormai impossibile dipendenza petrolifera. Tuttavia, i tentativi di dare vita a nuove industrie estrattive promettendo esenzioni fiscali e facilitazioni burocratiche agli investitori non sono stati capaci di far recuperare quanto perso.
Ciò che il Sudan sta guadagnando in termini di rendita dalla concessione di ampie estensioni di terra a compagnie straniere (prevalentemente cinesi nell’industria mineraria e legate ai Paesi del Golfo per quanto concerne la realizzazione e la gestione di grandi progetti agricoli monocolturali) è lontano dal livello degli introiti precedenti al 2011.
L’economia nazionale non si è più ripresa. Il valore della sterlina sudanese è in costante discesa (1 SDG equivale a 0,021 dollari [23 dicembre]), mentre il tasso di inflazione continua ad elevarsi e ad oggi ha raggiunto il 70%.
Il prezzo delle merci prosegue il suo aumento (in un contesto nazionale in cui poco meno della metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà): ottenere “food and fuel” è ogni giorno più difficile. In modo particolare, il rincaro dei prezzi risulta aggravato dalla recente decisione di interrompere il sostegno finanziario per l’acquisto di derrate alimentari, tra cui grano e zucchero. Molti forni hanno potuto accaparrarsi solo piccole quote di farina e la domanda di pane è lontana dall’essere soddisfatta.
A quanto pare, si è ora giunti ad un punto di rottura. Le proteste nei confronti del regime – ritenuto tanto incapace di governare il Paese quanto insensibile nei confronti delle privazioni a cui la popolazione deve sottostare – sono cominciate mercoledì 19 dicembre nel nordest del Sudan e si stanno diffondendo a macchia d’olio con un’intensità conflittuale che non si vedeva da decenni.
La rivolta ha avuto il suo epicentro ad Atbara, situata alla confluenza dell’omonimo fiume e del Nilo. Oggi nota per la grande industria del cemento che si è installata localmente, la città è stata per molto tempo un importante snodo ferroviario che ha anche ospitato fabbriche destinate allo sviluppo della rete ferrata nazionale, ormai quasi completamente dismessa dopo decenni di scarsi investimenti e malagestione. La rilevanza politica di Atbara è stata notevole già durante gli anni del dominio coloniale britannico del Sudan (1899-1956): l’alto tasso di sindacalizzazione legato allo sviluppo ferroviario fu in grado di mobilitare la componente operaia della città in numerose occasioni, rivelandosi oltretutto fondamentale in momenti cruciali della storia nazionale.
Quell’attivismo politico della città è nuovamente emerso con prepotenza pochi giorni fa. Al termine delle lezioni scolastiche del mattino, gruppi di giovani studenti e numerose componenti della società (negozianti, autisti, venditori ambulanti, ristoratori) si sono riversati nelle strade della città per urlare la loro rabbia nei confronti di un regime completamente disinteressato alle condizioni di vita della popolazione.
Le proteste hanno presto assunto un carattere fortemente bellicoso: alcuni manifestanti hanno assaltato il quartier generale del National Congress Party (il partito al governo) per poi darlo alle fiamme.
Il medesimo atto si è ripetuto contro le proprietà (abitazioni ed automobili) di importanti membri di partito, fuggiti velocemente da Atbara a bordo dei loro lucidissimi Toyota. Mentre la polizia ha condannato il gesto esprimendo la propria vicinanza agli uomini e alle strutture di governo, l’esercito ha invece solidarizzato con la popolazione. Tale alleanza ha avuto un esito immediato: dati i nuovi rapporti di forza emersi a livello locale le truppe speciali sudanesi fedeli al Presidente che si stavano muovendo verso Atbara per sedare la rivolta hanno preferito non avvicinarsi ulteriormente alla città.
L’esperienza di Atbara si è prontamente rivelata d’esempio per molte altre città, dove la popolazione si è organizzata con il passaparola, ma anche tramite l’utilizzo dei social network aggirando la censura e i blocchi governativi.
Il 20 dicembre studenti e lavoratori di Berber, Shendi e Port Sudan (l’importantissimo porto sul Mar Rosso, dove i lavoratori portuali hanno proclamato lo sciopero) sono scesi in strada, mentre il 21 è stato il giorno delle genti di Gedaref, Rahad e Wad Medani. Il 22 è stato il momento di Khartoum e di alcuni centri in Darfur.
Nella capitale il ruolo degli studenti e delle studentesse è stato dirimente: sono state sospese le lezioni presso la Al-Nileen University, la Sudan University, la Al-Ahfad University for Girls e l’antica Khartoum University. I giovani si sono riversati nelle strade di due aree centrali della città (Arkaweet e Al-Hurriya Avenue, non lontana dal palazzo presidenziale) riuscendo a mantenere la propria posizione per molte ore prima che la polizia riuscisse a disperderli. Ahmed, studente di Khartoum, è entusiasta: “Noi studenti siamo il futuro di questo Paese. Il Sudan da sempre può contare sulle proprie Università nel preparare la classe dirigente del futuro. Oggi è il momento che avvenga un ricambio!”.
Il Presidente ha reagito alle proteste con la repressione, istituendo il coprifuoco ad Atbara ed estendendo lo stato di emergenza a molte località del Sudan, anche quelle al di fuori delle città in stato di agitazione. Si ritiene che al momento i morti siano venti, di cui alcuni bambini presenti nelle mobilitazioni di piazza. Inoltre, numerosi sono coloro che hanno subito ferite rilevanti o la perdita di arti in seguito all’utilizzo di proiettili e vari esplosivi (oltre ai lacrimogeni) da parte della polizia.
Sebbene la rivolta sia scoppiata a causa delle deprivazioni materiali che la popolazione da troppo tempo soffre, è evidente che la “domanda politica” delle mobilitazioni sia molto più ampia.
I sudanesi che scendono in piazza reclamano la fine del regime: in più casi i manifestanti hanno scandito slogan come “Vogliamo abbattere il regime!”. Non è più il tempo di chiedere riforme economiche a chi non ha alcun piano per uscire dall’annosa crisi e a chi fino ad ora (il presidente al-Bashir e il suo staff, con le strutture di governo antipopolari e la violenza delle forze di sicurezza, tutto il NCP e i gruppi di interesse che vi gravitano attorno) ha costituito un élite nazionale in grado di accumulare fortune in modo continuo a detrimento di uno stato sociale diffuso.
Cosa aspettarsi nel prossimo futuro?
In questo ci può aiutare l’analista politico sudanese Faisal Muhammed Saleh. Intervistato da AlJazeera egli sostiene che la situazione attuale possa evolvere in tre scenari possibili.
Il primo prevede l’avvicinamento tra popolazione e alcuni settori dell’esercito. “Una conclusione potrebbe quindi essere un colpo di Stato operato da questi ultimi, detentori dell’esecutivo per un periodo determinato, in attesa di cedere il potere ad un Parlamento eletto” afferma lo studioso.
Il secondo – prosegue – ipotizza una congiura di palazzo. Ovvero, “si suppone che individui vicini al Presidente possano decidere di sacrificarlo al fine di abbonire la popolazione e, però, mantenere la propria posizione di governo intaccata”.
Un terzo scenario comprende invece la possibilità che le istituzioni nazionali si dirigano verso il collasso, incapaci di generare alcuna organizzazione politica alternativa a quella attuale. “Ciò comporterebbe per il Sudan un destino non dissimile da quello che caratterizza altri importanti Paesi dello scacchiere regionale: Libia, Yemen e Somalia”.
Ovviamente, tale eventualità sta scatenando un certo livello di nervosismo internazionale, tanto da parte degli alleati economici che con al-Bashir hanno fatto buoni affari, quanto da parte di quei Paesi europei che hanno visto nel Presidente del Sudan un uomo pronto a bloccare – imprigionandoli sul proprio territorio – i migranti diretti a oltrepassare il Mediterraneo.
Infine, è evidente per F. M. Saleh l’impossibilità di un quarto scenario, quello in cui il regime decida di rispondere positivamente alle richieste popolari: “La promozione di politiche economiche costruttive e di riforme utili a modificare il sistema di governo dal suo interno richiederebbero infatti una competenza politica e un radicamento sociale che al momento le istituzioni non hanno in alcun modo”.
*dottorando in Geografia (ricerca inerente sviluppo e territorio in Sudan) presso l’Università degli Studi di Padova. L’articolo è stato pubblicato anche sulla pagina web liberipensieri.eu
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