Secondo alcuni commentatori, alla luce del risultato emerso ieri dalle municipali, la “Turchia ha voltato pagina”. Una dichiarazione forse un po’ esagerata e prematura, ma che di sicuro centra un punto fondamentale: il presidente turco Erdogan, che da 17 anni domina la politica nazionale, ha subito ieri una innegabile sconfitta. Per mesi ha terrorizzato il Paese minacciando dissidenti e presunti oppositori presentando le municipali in versione apocalittica come “una questione di sopravvivenza” per la Turchia.
Come se il problema turco non fosse la grave crisi economica che stritola la vita di milioni di cittadini, ma eventuali sindaci dell’opposizione. I suoi tentativi di polarizzare il Paese hanno esacerbato le tensioni già altissime che si vivono nello stato da anni. E’ il modo di governare di Erdogan, l’unico suo modo di farlo. Creare un perenne nemico al quale indirizzare tutti i mali turchi, a cui addossare tutte le responsabilità dei fallimenti politici del suo governo è da anni il suo marchio di fabbrica. Una strategia che ha funzionato a lungo, ma che ormai non sembra essere più sostenibile. Nonostante infatti i suoi comizi quotidiani e l’appoggio incontrastato della quasi totalità dei media nazionali, ieri il “Sultano” ha perso Ankara, la capitale nonché la seconda città turca, e non è riuscito al momento a prendersi Istanbul.
La gioia dell’opposizione repubblicana rappresentata dal Chp è comprensibile: “Il popolo ha votato a favore della democrazia” ha detto Kemal Kilicdaroglu, celebrando ieri notte soprattutto le vittorie ottenute nella capitale e a Smirne, fortino dei kemalisti e terza città turca. “Abbiamo vissuto ogni tipo d’ingiustizia – ha aggiunto Kilicdaroglu – questa vittoria è molto importante per noi”. Il leader kemalista ha poi detto che “la votazione si è svolta democraticamente e il suo successo sarà accolto con favore non solo da noi, ma da tutto il mondo perché la democrazia sta avanzando in Turchia. Noi diciamo: la Turchia ha vinto. Dopo queste elezioni, tutti hanno vinto. Siamo pronti a compiere il nostro dovere per superare la crisi economica turca”.
Come avevano pronosticato i sondaggi, ad Ankara ha vinto il candidato kemalista del Chp Mansur Yavas che ha ottenuto il 50,9% delle preferenze, 3,8% in più del suo rivale dell’Akp, il partito islamista che fa capo ad Erdogan. Confusa e carica di tensione la situazione a Istanbul. Un’eventuale sconfitta qui del presidente sarebbe un colpo durissimo per lui e il suo partito. Non solo per l’importanza della prima città del Paese, ma anche da un punto di vista simbolico: è qui che il presidente-“Sultano” ha iniziato la sua carriera politica. E’ qui che ha rivestito la carica di sindaco negli anni ’90.
Sul voto ad Istanbul i canali televisivi turchi hanno dato ieri l’aspirante sindaco dell’Akp (nonché ex premier) Binali Yildirim in leggero vantaggio sul suo oppositore del Chp Ekrem Imamoglu. Ma parliamo di una sfida testa a testa: con il 98,8% delle scede scrutinate, la differenza ieri tra i due era di solo 4.000 voti sugli 8 milioni complessivi. Yildirim ha rivendicato la vittoria in città, ma Imamoglu, citando i dati del suo partito, ha detto che ad essere in vantaggio è lui. La situazione si è fatta ancora più ingarbugliata quando ha preso parola ieri notte Erdogan. Rivolgendosi ai suoi sostenitori, il presidente è sembrato quasi accettare la sconfitta dell’Akp nella megalopoli turca, nonostante abbia poi precisato che il suo partito ha mantenuto il controllo di molti distretti della città. Erdogan ha però anche detto che l’Akp farà appello “ovunque è necessario”. A partire dalla capitale dove il segretario generale del partito Fatih Sahin ha riferito alla stampa di “aver identificato voti non validi e [registrato] irregolarità nella maggior parte dei 12.158 seggi”. “Useremo i nostri diritti fino alla fine – ha promesso – non permetteremo che la volontà dei nostri cittadini venga alterata ad Ankara”. Secondo l’agenzia filo-governativa Anadolu, l’Akp farà ricorso anche a Istanbul e nella provincia orientale di Igdir. Dichiarazioni e atti che fanno sorridere per un partito che, anche sui brogli, ha costruito i suoi ultimi successi alle urne.
Ma quelle di ieri sono state anche elezioni segnate dalla violenza: due persone sono state uccise nella provincia di Malatya e altre tre in quella meridionale di Gaziantep. Morti che rivelano più di tanti discorsi la tensione altissima che si respira in Turchia. Da segnalare è anche il risultato elettorale nel sud est del Paese a maggioranza curda. Qui i sostenitori del partito di sinistra filo-curdo Hdp hanno ripreso le municipalità che le autorità turche avevano tolto loro due anni fa per i presunti legami tra l’Hdp e quelli che Ankara definisce i “terroristi” del Pkk. Intervistato dalla Reuters, un residente di Diyarbakir, la “capitale” dei curdi di Turchia, ha così sintetizzato la situazione: “Ci hanno rubato della nostra volontà e noi [oggi] abbiamo rovesciato [la situazione]”.
Erdogan, intanto, ieri notte si è concentrato sulle prossime sfide che attendono il Paese: “Abbiamo di fronte un lungo periodo dove dovremo implementare le riforme economiche senza compromettere le regole del libero mercato. Inizieremo ad aggiustare i nostri errori a partire da domani mattina. Non combatteremo la nazione, altrimenti questo sarebbe fascismo. Soddisfare le nostre persone è più importante del nostro partito”. Il primo punto da risolvere è sicuramente la crisi economica che colpisce il Paese. Un tema serio che ha inciso fortemente sul voto: in un anno la lira turca è scesa del 30%, l’economia è in recessione. L’inflazione è vicina al 20%, la disoccupazione è in crescita. Di fronte a questi dati, sono apparse ridicole le dichiarazioni di questi mesi del presidente che ha attribuito i problemi della Turchia a presunti attacchi provenienti dall’Occidente. Può stare tranquillo Erdogan, non c’è stato e non c’è alcun complotto contro Ankara: ieri il suo Akp ha perso consensi soprattutto per la gestione scriteriata della questione economica.
“Le elezioni di oggi sono storiche come quelle del 1994” ha twittato il giornalista turco Rusen Cakir, facendo riferimento all’anno in cui Erdogan divenne sindaco di Istanbul. “Quello che è successo ieri – ha affermato ancora Cakir, “è una dichiarazione che una pagina aperta 25 anni fa è stata girata”. Chissà. Intanto la Turchia si prepara a vivere altri mesi di fortissima tensione.
Nena-News.it
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marco
tanto più storiche, perchè ieri un compagno del partito comunista turco, per la prima volta nella storia del paese, è stato eletto sindaco di una città medio grande
Gianni Sartori
SETTE MILITANTI CURDI SI SONO TOLTI LA VITA CONTRO L’ISOLAMENTO
(Gianni Sartori)
Coincidenza. Fino al 30 giugno alle Gallerie Estensi di Modena viene esposta una mostra su Angelo Fortunato Formiggini, editore, antifascista, ebreo, che si diede la morte nel 1938 gettandosi dalla torre della Ghirlandina per protesta contro l’approvazione delle leggi razziali. Come hanno evidenziato alcuni antifascisti bolognesi: “…le istituzioni sono sempre molto brave a ricordare il passato, invece tutti tacciono quando si tratta degli orrori del presente…”.
Zülküf Gezen, Uğur Şakar, Ayten Beçet, Zehra Sağlam, Medya Cinar, Yonca Akici, Sirac Yuksek
Ormai sono sette. Sette in neanche quindici giorni.
Il 2 aprile un altro prigioniero politico si è tolto la vita. Ancora un’azione di protesta contro l’isolamento a cui viene sottoposto il leader curdo Ocalan.
Militante del PKK, Sirac Yuksek era rinchiuso nel carcere di Osmaniye.
Al momento il suo cadavere è stato portato all’Istituto di medicina Forense e si teme che non venga riconsegnato ai familiari per il funerale. Entro domani i suoi avvocati si recheranno alla prigione per conoscere i particolari del decesso.
Sette curdi (sei prigionieri nelle carceri turche e un militante in Germania) hanno già perso la vita con queste radicali azioni dimostrative contro il regime carcerario turco.
Il 17 marzo era stato Zulkuf Gezen nel carcere di Tekirdag a compiere l’atto di estrema protesta.
Pochi giorni dopo, 22 marzo, in un ospedale tedesco moriva Ugur Sakar che un mese prima si era autosacrificato con le fiamme a Krefeld.
Rinchiusa a Gebze, Ayten Becet si era suicidata il 23 marzo. Il giorno successivo la medesima scelta veniva compiuta da Zehra Saglam in una prigione speciale della provincia di Erzurum,
E ancora Medya Cinar, sempre in un carcere speciale, il 25 marzo.
Yonka Akici era in sciopero della fame dal 1 marzo nella prigione di Sakram. Aveva deciso di porre fine alla sua vita il 29 marzo, ma era poi sopravvissuta alle ferite fino al 1 aprile. Il giorno dopo, 2 aprile, è stata la volta di Sirac Yuksek.
Finora i corpi dei prigionieri che hanno scelto di immolarsi contro l’isolamento – e di conseguenza contro il regime carcerario – non sono stati restituiti ai familiari. Prima trattenuti dalle autorità, vengono poi sepolti di notte, clandestinamente. Impedendo a parenti, amici e militanti di onorarli. Solo a pochissimi membri della famiglia talvolta si consente di assistere.
Da un lato, verrebbe da associarsi alle richieste di politici, associazioni e movimenti curdi (compreso il PKK) che hanno richiesto, quasi ordinato, di “finirla con queste azioni individuali”. Proseguendo invece nello sciopero della fame, una lotta collettiva che al momento coinvolge circa settemila prigionieri.
Dall’altro si intuisce quale sia ormai la rabbia, se non la disperazione, dei prigionieri curdi che evidentemente percepiscono la vergognosa indifferenza delle istituzioni internazionali nei confronti delle loro sofferenze.
Onore al loro coraggio, alla loro determinazione.