La situazione militare nel Donbass aggredito dai nazigolpisti ucraini continua a rimanere oltremodo tesa. Nelle ultime 72 ore, sul territorio della Repubblica popolare di Lugansk, mortai da 82 e 120 mm e lanciarazzi anticarro hanno colpito in particolare gli agglomerati di Kalinovo e Frunze, i villaggi di Lozovoe, Prišib, Krasnyj Liman, Želobok e il borgo di Moločnoe.
Nella Repubblica popolare di Donetsk, armi di vario calibro – mortai, lanciagranate, cannoncini di mezzi blindati – hanno bersagliato il cosiddetto “Volvo-tsentr”, nell’area del terminale aeroportuale di Donetsk, oltre ai borghi di Veseloe, Spartak, Aleksandrovka e, all’immediata periferia del capoluogo repubblicano, Jasinovataja e Vasilevka; colpita ieri Sakhanka, nel sud della Repubblica.
Le milizie della DNR hanno messo in guardia i civili di Gorlovka sull’arrivo, nell’area di stanza della 53° Brigata meccanizzata, di cecchini ucraini, che hanno l’ordine di sparare su qualsiasi obiettivo, militare o civile, e hanno dato l’allarme sull’arrivo, nell’area di Krasnogorovka, di unità addizionali del 74° Battaglione da ricognizione, specializzate in operazioni di sabotaggio.
Alla tragedia della guerra, si è aggiunto il dramma dei 17 minatori rimasti sepolti nella miniera di “Skhidkarbon” in seguito a uno scoppio di metano, nel villaggio di Jurevka, nella LNR e i cui corpi sono stati recuperati sabato scorso.
E’ in questo scenario che si inquadra la cronaca della settimana susseguente all’elezione alla presidenza dell’Ucraina del “uomo nuovo” Vladimir Zelenskij. Una cronaca che ha visto, per un verso, una discussione oltremodo futile – tanto chiare sono apparse da subito le posizioni del successore di Petro Porošenko – sulle reali intenzioni del neoeletto Presidente di por fine all’aggressione al Donbass e, per un altro, la fulminea (anche se attesa da tempo) decisione di Vladimir Putin sulla semplificazione delle procedure per la concessione del passaporto russo a tutti gli abitanti di DNR e LNR che lo desiderino.
Se anche prima delle elezioni sussistevano pochi dubbi sull’atteggiamento di Zelenskij verso la questione del Donbass, con le ripetute dichiarazioni a proposito di “feccia del Donbass”, “separatisti”, “banditi che saranno puniti”, ecc., le esternazioni del suo stretto entourage, immediatamente dopo il voto del 21 aprile, hanno tolto ogni dubbio. Vengono rifiutati in toto i punti cardine degli accordi di Minsk del febbraio 2015: niente status speciale per il Donbass; niente amnistia alle milizie; niente dialogo diretto con DNR e LNR, ma colloqui con Mosca, tramite l’intermediazione di Washington e Londra; addirittura, la pretesa di aggiungere USA e Gran Bretagna al “formato normanno” di Francia, Germania, Russia e Ucraina.
Infine, immediatamente a ridosso del decreto putiniano del 24 aprile sui passaporti, la conferma che l’aggressione, nelle intenzioni di Kiev, andrà avanti per almeno altri cinque anni, incentivando le truppe con il miraggio dell’aumento della paga. Ma, visto che sin dall’inizio dell’attacco i golpisti non sono mai riusciti a venire a capo della resistenza dei giovani di leva a esser spediti in prima linea, ecco l’idea dell’esercito volontario professionale, contrabbandata come “standard NATO”.
Ai volontari si promette, “entro cinque anni” – dunque, si presuppone che tanto debba durare ancora la guerra; inoltre, non è detto quando e come dovrebbe attuarsi la “riforma” – un aumento del soldo, dagli attuali 450 euro al mese per gli ufficiali, a oltre 1.000 euro per i soldati e 2.500 per gli ufficiali: una promessa peraltro già fatta cinque anni fa da Porošenko e mai mantenuta.
In sostanza, è a questa promessa di soldi che sembra ridursi il succo della nuova “dottrina militare di Zelenskij”, il cui autore è il suo consigliere militare, il colonnello della riserva Ivan Aparšin. Formalmente, il piano prevede che le funzioni di Comandante in capo (il Presidente) siano separate da quelle dello Stato maggiore: il secondo dovrebbe occuparsi di pianificazione della difesa e uso strategico delle forze armate; al Comando delle forze armate e di determinati reparti verrebbero affidati compiti di formazione e addestramento; al Quartier generale operativo riunito, l’impiego delle truppe.
Ora, osserva Aleksandr Zapolskis su iarex.ru, in ogni paese serio, quello della “dottrina militare” è un documento strutturato, che riassume l’analisi di tutti i fattori chiave che influenzeranno la sicurezza nazionale per un periodo da 10 a 20 o 25 anni. Quello di Zelenskij, invece, non è che un “calco approssimativo” del modello USA, ignora completamente le condizioni ucraine e manca di una chiara esposizione operativa dei problemi e dei modi per risolverli.
Dunque, nessuna proposta seria per por fine alla guerra nel Donbass; al contrario, le indicazioni russe per una risoluzione del conflitto vengono definite “inaccettabili per Kiev” dal principale consigliere di Zelenskij, il politologo Dmitrij Razumkov, secondo il quale si dovrebbe arrivare alla pace alle condizioni di Kiev, cioè sostituendo gli accordi di Minsk con un nuovo piano di risanamento. Ma, per Mosca, gli accordi del 2015 rimangono l’unica formula valida per la risoluzione del conflitto.
Così che il politologo russo Denis Denisov, sulle Izvestija, definisce una “reazione adeguata” la decisione sulla concessione dei passaporti: “questo documento va considerato come una reazione alla posizione assunta da Vladimir Zelenskij. La sua retorica è inaccettabile e, di conseguenza, è aumentato il rischio di un congelamento del conflitto o della sua risoluzione con la forza da parte ucraina”.
La Russia ha atteso che il neo-eletto presidente formulasse “una chiara posizione sulla risoluzione del conflitto” afferma Denisov; invece, da parte di Zelenskij e del suo entourage, si sono avute solo “dichiarazioni che non hanno certo ispirato ottimismo nella popolazione del Donbass. Ecco perché Vladimir Putin ha firmato il decreto”.
Oltretutto, c’è da dire che la concessione di passaporti a cittadini ucraini va avanti non da ora, nelle aree abitate da minoranze nazionali: lo fa Budapest con la Transcarpazia, Bucarest con l’area di Černovtsy, lo ha fatto Ankara con la Crimea; Varsavia distribuisce la “Carta del polacco” in alcune zone della Galizia. Ma, si sa: si tratta di Stati “europei” e Kiev, con quelli, non osa far la voce grossa.
Il 25 aprile, il giorno successivo alla firma del ukaz di Putin, il rappresentante ucraino all’ONU aveva chiesto la riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza ma, a parte la discussione, Kiev non ne ha ricavato nient’altro: la presidenza di turno (tedesca) ha semplicemente ignorato la richiesta ucraina di un comunicato di condanna dell’iniziativa russa e la questione non è stata nemmeno portata in votazione. Il risultato: già lunghe file di cittadini della LNR per la consegna dei documenti necessari alla richiesta di passaporto, che le autorità di Lugansk presenteranno agli uffici russi.
Tra i punti positivi del decreto sui passaporti (basti anche solo pensare alla stabilizzazione delle centinaia di migliaia di abitanti di DNR e LNR che lavorano in Russia) di primaria importanza è il fatto che Mosca avrà l’opportunità di influire più efficacemente nella crisi, in caso di provocazioni di Kiev: è il caso di ricordare l’esempio dell’aggressione della Georgia all’Ossetija del Sud nel 2008.
Sabato scorso, in margine al Forum di Pechino sul Belt and Road, oltre a dichiarare che Mosca potrebbe estendere a tutti gli ucraini la procedura semplificata sulla concessione dei passaporti, Vladimir Putin ha detto che il primo tema che affronterebbe in un eventuale incontro con Zelenskij sarebbe quello di come por fine alla guerra nel Donbass, dicendosi certo che gli stessi ucraini che lo hanno eletto attendono da lui la risoluzione del conflitto. Al tempo stesso, Putin ha ribadito che tale risoluzione non può aversi al di fuori degli accordi di Minsk, cui però contraddicono le dichiarazioni di Zelenskij.
Così, è con tale “nuova squadra” golpista che il Cremlino si trova ora a dover interloquire. Tra l’altro, Mosca dovrà anche tener conto di quanto potere effettivo rimarrà nelle mani del Presidente – “nuovo Presidente eletto”, lo qualificano alcuni media russi, mentre altri, con un giro di parole tra l’ambiguo e il caustico, come “l’individuo per cui ha votato più del 73% degli elettori” – se l’Ucraina andrà davvero, come prospettato dalla Banca Mondiale, verso una Repubblica parlamentare e alle elezioni legislative d’autunno la Rada vedrà una maggioranza schierata con la vecchia cerchia di Petro Porošenko.
Per quanto riguarda i rapporti interni ucraini, il Cremlino dovrà tener conto di quanto interesse abbia il clan di Igor Kolomojkij, che manovra il neo Presidente ucraino, all’avvicinamento tra Kiev e Mosca. In questo senso, a parere del politologo Rostislav Iščenko, determinante appare l’interesse di Kolomojskij a riallacciare in qualche modo i rapporti con il Cremlino, interrotti nel 2010 allorché l’oligarca si era accaparrato le quote delle raffinerie di Kremenčug, di proprietà della “Tatneft”, e con ciò stesso si era chiuso ogni spiraglio per continuare a fare affari in Russia. Ora, dice Iščenko, pur di riconciliarsi con Mosca e rientrare in possesso dei propri attivi sul territorio russo, Kolomojskij potrebbe esser disposto a concedere non solo DNR e LNR, ma le intere regioni di Donetsk e di Lugansk.
Riguardo ai rapporti esterni, ovviamente più decisivo sarà il ruolo che i padrini di Washington e di Bruxelles decideranno di assegnare ancora all’Ucraina golpista.
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