È un momento storico per il Sudan, ieri notte al picco di intensità di una mobilitazione che dopo le sparatorie e le uccisioni della notte prima nel sit in permanente di fronte al quartier generale dell’esercito, con una dinamica tutta da indagare, le delegazioni trattanti tra la TMC – la giunta composta da militari che ha “preso il potere” defenestrando Bashir – e le forze dell’opposizione che hanno guidato la rivoluzione sudanese (FDFC) sono giunte ad un accordo.
Più della metà (67 per cento) dei componenti del consiglio legislativo transitorio saranno composti da membri dell’opposizione, così come la cabina ad interim, la transizione durerà tre anni ed i primi sei mesi verranno impiegati per porre fine ai conflitti e alle guerre civili che hanno caratterizzato la storia del martoriato paese.
Verrà promossa una commissione di inchiesta congiunta (TMC e FDFC) sulle sparatorie e le uccisioni dell’altra sera. Oggi verrà resa pubblica la lista dei componenti del “Consiglio Sovrano” che avrà poteri minimi.
La rivoluzione sudanese sta trionfando, del resto le immagini del manifestante che dopo le sparatorie di ieri ha scritto sul proprio petto “benvenute pallottole” da la cifra della determinazione di questo popolo
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Lunedì 13 maggio, i colloqui tra il “Concilio Militare di Transizione” (MTC) e il fronte che raggruppa le varie organizzazioni che hanno guidato l’opposizione al deposto presidente Al-Bashir: le Forze della Dichiarazione della Libertà e del Cambiamento, sono ripresi.
Il confronto tra le due delegazioni trattanti – dopo un inizio promettente e quattro sessioni – si era arenato sulla composizione, la durata ed i compiti dell’ organismo civile che dovrebbe governare la transizione. I militari – che hanno “preso il potere” defenestrando Bashir l’11 aprile – in seguito al colpo di stato successivo al picco delle mobilitazioni il 6 aprile – volevano un numero preponderante di esponenti delle alte cariche dell’esercito e le Forze, desideravano una maggioranza di civili.
In questo “interregno” si sono acuiti i momenti di tensione in una situazione tutt’altro che “pacificata” e la mobilitazione è continuata in tutto il paese, nel mentre si sono moltiplicate le ingerenze degli attori regionali per dare uno sbocco a loro favorevole alla crisi che non minasse i propri interessi.
I due esponenti di spicco della giunta sono legati a doppio filo – per il ruolo svolto nel rilevante supporto dato dal Sudan alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita contro i ribelli Houti in Yemen – ai sauditi e agli emirati.
A questi ultimi, l’Arabia Saudita in primis, preme soprattutto la continuità del posizionamento rispetto al conflitto yemenita – a cui il paese africano ha dato ben più di 10 mila combattenti, per la maggior parte originari del Darfur – e la tutela degli investimenti effettuati nell’agricoltura e nelle strutture ad essa indispensabili, ed in genere il mantenimento del Sudan nella loro sfera di influenza.
Un particolare non di poco conto, è il ruolo economico rilevante che riveste la Cina in Sudan – così come nel Sud Sudan divenuto alcuni anni orsono indipendente – e la sua collocazione strategica per la “Via della Seta”: quale sarà il rapporto tra i due Paesi e se le relazioni non cambieranno nonostante gli intervenuti rapporti politici – come avvenuto in Zimbawe – è una delle incognite della transizione che Pechino osserva da vicino, come la Russia, cercando di non esercitare alcuna ingerenza.
Un altro nodo che preme alle petrol-monarchie del Golfo è la continuità della Sharia – introdotta nel 1983 ed implementata dal regime di Omar Al-Bashir che si è alleato nel colpo di stato dell’89 con il Fronte Islamico e che ha plasmato ideologicamente il partito presidenziale.
L’opposizione – in cui il Partito Comunista Sudanese ha un ruolo rilevante – chiede la soppressione della “costituzione transitoria” del 2005, e vuole l’abolizione del codice islamico come base del patto costituzionale, contrariamente a ciò che sembra avere lasciato intendere la giunta favorevole ad una continuità.
Arabia Saudita e Emirati sono preoccupati della marginalizzazione nella vita politica delle formazioni dell’Islam politico eredi del “vecchio regime” a causa di una mobilitazione popolare in cui la componente e le rivendicazioni espressamente femminili hanno avuto un ruolo chiave, e che ha identificato in queste un pilastro del sistema di potere passato.
Un altro motivo di preoccupazione rispetto agli equilibri regionali – per cui l’Unione Africana a fatto slittare a fine luglio l’ultimatum chiesto alla giunta del trasferimento dei poteri ad una autorità civile, dilazionandolo rispetto alle richieste iniziali – è la possibilità di un “contagio”.
Sembrano andare in questo senso le dichiarazioni del carismatico leader Bobi Wine rilasciato da poco dal carcere (un cantante proveniente dal ghetto politicizzatosi) in Uganda – dove Yoweri Musenevi è al potere dal 1986 – che ha recentemente chiamato i suoi sostenitori a fare ed in Sud Sudan anziché aspettare le elezioni nel 2021, e sta compattando la fronda contro un regime sanguinario sostenuto dalle potenze occidentali, o l’appello alla mobilitazione lanciato per i prossimi giorni in Sud Sudan.
È chiaro che ciò che avviene in Sudan è seguito molto da vicino da una opinione pubblica piuttosto interessata e dai vari “regimi” in maniera piuttosto preoccupata.
Un “documento costituzionale” era stato elaborato e reso pubblico dalle Forze della Dichiarazione e prevede un periodo transitorio di 4 anni, uno stato federale decentralizzato su tre livelli di governo (federale, regionale e locale) e tre organi: un “consiglio sovrano transitorio”, una “cabina ministeriale” e un “organo legislativo” in un equilibrio di poteri – con una magistratura indipendente – che garantisca la transizione.
Il “consiglio sovrano transitorio” sarebbe – nella proposta elaborata – la massima autorità che dovrebbe essere scelta dalle Forze e dalla TMC, agendo come sia come capo dello stato e che come comando supremo delle forze armate, mentre la Cabina agirebbe come un governo provvisorio con un Primo Ministro, mentre il Consiglio Legislativo dovrebbe essere composto da 120-150 membri ed avere una quota femminile non inferiore al 40%, essere indipendente e non dissolvibile con un potere di controllo sul governo transitorio e la nomina del primo ministro in caso di dimissioni del governo.
Le mobilitazioni sono continuate in tutte il paese, e numerose delegazioni sono arrivate (anche da molto lontano come quella di Um Dowina dello stato del Gezira a 150 km dalla capitale!) per dare man forte al sit-in permanente che anche durante il periodo di ramadan continua di fronte al quartier generale dell’esercito nella capitale.
Ma non solo a Karthoum si sono svolte mobilitazioni e queste riguardano una configurazione di richieste politiche e sociali, vedendo scendere in sciopero importanti settori dell’economia sudanese, come i lavoratori della compagnia elettrica che con i loro mezzi hanno “sbarrato” una arteria principale della capitale chiedendo tra l’altro spiegazioni pubbliche al responsabile dell’azienda dei continui tagli nell’erogazione di energia elettrica contro cui si sono a più riprese levate le proteste degli abitanti.
Ci sono stati casi di aggressioni da parte dell’intelligence militare e delle forze dell’ordine contro i membri dei comitati che nella capitale sono i responsabili per il rifornimento idrico, di ghiaccio e di cibo del sit-in, a cui le Forze hanno reagito chiedendo di unirsi alla protesta ed aiutare la mobilitazione.
Si registra un clima di grande unità tra la popolazione che mette seriamente in discussione la strategia di governance del vecchio regime ed il suo razzismo (non era raro che si usasse l’espressione “schiavo”), in particolare nei confronti della popolazione di colore del Darfur – che si è unita alla protesta giungendo con una folta delegazione nella capitale – e degli abitanti dei territori interessati della valle del Nilo e delle località circostanti interessati dai progetti altamente impattanti di dighe, privilegiando la componente arabo-mussulmana.
Come ha dichiarato un manifestante giunto dal Darfur: “siamo rinati”.
Sulla capacità di tenuta della mobilitazione che si gioca il futuro del Sudan e del suo popolo.
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