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Nello scontro con la Cina Washington cerca la sponda russa

Si è svolto ieri a Soči il previsto incontro (il secondo nel giro di un mese) tra il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e il Segretario di Stato Mike Pompeo, che fa seguito al colloquio telefonico dello scorso 3 maggio tra Vladimir Putin e Donald Trump, dopo il quale, secondo le parole di Lavrov, i due Presidenti avevano sollecitato i rispettivi Ministri a “intensificare il dialogo” teso alla “normalizzazione dei rapporti” Russia-USA.

Lavrov ha dichiarato di aver affrontato con Pompeo anche le questioni di Venezuela, Penisola coreana, Siria, Ucraina e nucleare iraniano. A quanto pare, il disaccordo rimane pressoché su tutti i temi e le parti si sono “impegnate a continuare il dialogo”. Il tema del “ristabilimento di normali rapporti” è risuonato anche nel successivo colloquio serale, quando Pompeo ha incontrato Vladimir Putin.

Nell’incontro con Lavrov, Pompeo ha insistito sul mantra del “Maduro se ne deve andare”, cui il russo ha risposto che le minacce all’indirizzo di Maduro da parte di esponenti USA e Guaidò non hanno nulla a che fare con la democrazia. Ma, a proposito di un presunto “scambio” Trump-Putin per le sfere d’influenza su Venezuela e Ucraina, di cui alcuni media avevano parlato alla vigilia, non sembra proprio che si debba arrivare ad alcun baratto.

In particolare, sostiene Aleksandr Khaldej su iarex.ru, perché entrambi hanno bisogno di ambedue le zone: “i paesi globali hanno interessi globali”, siano USA, Russia o Cina. Era così già ai tempi dell’URSS, quando si scherzava sullo slogan “abbiamo bisogno della pace” e qualcuno rispondeva “sì, e preferibilmente tutto”, giocando sul termine mir, che in russo significa sia pace che mondo. Mosca e Washington non si scambieranno zone di influenza: casomai, si preparano a sottrarsele, in ogni parte del mir, e la cosa riguarda a maggior ragione aree chiave quali Ucraina e Venezuela.

L’abbandono dell’Ucraina da parte degli USA, afferma Khaldej, rafforzerebbe la Russia e significherebbe l’avvio di un ristabilimento delle frontiere dell’ex URSS sotto egida di Mosca e l’inevitabile alleanza con Pechino: cioè, il colpo di grazia per gli Stati Uniti.

E che Mosca non preveda alcuno scambio, bensì, al contrario, un’impennata della tensione nel Donbass, lo dimostrerebbe la nomina dell’ex ambasciatore a Minsk, Mikhail Babič, a curatore presidenziale per DNR e LNR, vista come una vittoria del “partito militare” su quello diplomatico. Non a caso, proprio sulla Bielorussia, tra i due “partiti” del Cremlino, avrebbe prevalso il secondo, ottenendo la sostituzione del rigido Babič col più morbido Dmitrij Mezentsev; mentre, per la situazione di guerra in Donbass, le soluzioni si sono invertite e, accanto alla decisione sui passaporti agli abitanti delle Repubbliche popolari, in vista di un inasprimento dell’aggressione ucraina, si è optato per un elemento di polso, a sostituire Vladislav Surkov, sponsorizzato dal “partito diplomatico”.

Una questione invece che, almeno ufficialmente, non pare sia stata affrontata da Lavrov e Pompeo, è quella della Crimea, su cui qualcosa si sarebbe mosso oltreoceano, anche se non a livello ufficiale: l’ex assistente di Ronald Reagan, Douglas Bandow, ha scritto su The National Interest che un auspicabile miglioramento dei rapporti USA-Russia dovrebbe passare per il riconoscimento della Crimea russa e l’arresto dell’espansione a est della NATO.

Cosa dovrebbe chiedere in cambio Washington? “Solamente” la fine del sostegno russo al Donbass! Un’ipotesi a dir poco fantasiosa e, in sostanza, dettata da un’unica preoccupazione, che diviene sempre più evidente alla luce della guerra commerciale USA-Cina: dopo il vertice Putin-Xi al Forum “Belt and Road” dello scorso aprile, Washington appare impensierita delle possibili conseguenze per gli USA di una più stretta collaborazione tra Mosca e Pechino.

Il politologo Dmitrij Drobnitskij ricorda il cosiddetto “triangolo di Kissinger” degli anni ’70, secondo cui interesse USA è quello di tenere Mosca e Pechino più vicine a sé di quanto non lo siano l’una con l’altra, uno dei cui effetti collaterali, però, sottolinea Svetlana Gomzikova su Svobodnaja Pressa, in fin dei conti è stato quello di far sì che, anche grazie a quella politica nixoniana, qualche decennio dopo la Cina divenisse la prima economia del mondo, “parte integrante non solo dell’economia globale, ma anche parte inseparabile della cosiddetta Cimerika”.

In sostanza, l’ipotesi prospettata da Bandow, sarebbe quella di dichiarare pari pari a Mosca “fai quello che vuoi con l’Ucraina, ma, per l’amor del cielo, smetti di avvicinarti alla Cina”.

Ora, anche la missione di Pompeo a Soči sembra rientrare in questo quadro. Oltre, però, a motivi più “interni”. Si deve tener conto infatti del conflitto tra CIA e Pentagono; dietro al secondo starebbero i Clinton e i neocon, sostenitori di una pressione totale sulla Russia, fino al completo blocco economico e diplomatico, unito a una sfrenata corsa agli armamenti.

Dietro alla fazione della CIA ci sarebbero gli uomini di Trump, e Pompeo è uno di loro, dice ancora Khaldej. La CIA stessa soffocherebbe volentieri la Russia con gli stessi mezzi del Pentagono; ma ciò significherebbe la vittoria di quei gruppi da cui è esclusa Langley e, nello scontro per il potere interno agli USA, la CIA è interessata a mettere i bastoni tra le ruote al Pentagono.

Ipotesi, per l’appunto; tanto più che Washington non ha mai interrotto le manovre per isolare la Russia da quelle ex Repubbliche sovietiche rimaste apparentemente “neutrali”: principalmente Kazakhstan e Bielorussia, dopo le aperte “conversioni” di Paesi baltici, Georgia, Azerbajdžan, Ucraina, e gli ondeggiamenti delle Repubbliche minori centro-asiatiche.

Dopo le ripetute oscillazioni di Aleksandr Lukašenko sul fronte energetico e commerciale con Mosca, o i suoi passati scambi di cortesie con Petro Porošenko, sembra di non poter escludere la mano yankee nel tentativo di golpe contro di lui delle scorse settimane, a sventare il quale avrebbe contribuito il FSB russo. Ma, di regola, il lavoro yankee è più sottile.

Il paese è avvolto da una rete di progetti sovvenzionati; si selezionano gli attivisti, preferibilmente giovani, gruppi, associazioni, ecc. da istruire: niente politica; e voilà, in 5-6 anni eccoli fedeli a USA, UE e valori occidentali. Ad esempio: è di 3 milioni di euro il programma triennale del Partenariato orientale “Sostegno alla politica economica della Repubblica di Bielorussia” e, a oggi, il personale della Banca Mondiale ha condotto 16 missioni in Bielorussia, organizzato 11 seminari e tenuto oltre 90 incontri.

Per quanto riguarda il Kazakhstan, l’attuale ambasciatore USA William Moser è visto in loco quale “specialista” di “rivoluzioni colorate” e la sua nomina sembra inquadrarsi nei piani del Dipartimento di Stato, esplicitati di recente proprio da Mike Pompeo, che ha incluso l’Asia centrale tra le aree in cui gli USA contrasteranno “l’influenza malvagia della Russia”. Un’operazione, dice il politologo Dmitrij Žuravlëv, che non prevede all’inizio un attacco diretto, come fatto con l’Ucraina, con le folle in piazza, bensì un lavoro più fine e più lento: lo stesso che, d’altronde, era stato fatto con l’Unione Sovietica e che non si è mai smesso di fare anche con la Russia.

Sempre in Asia centrale, secondo la russa RT, l’Agenzia USA per lo sviluppo internazionale (USAID) si appresterebbe a stanziare 2,5 milioni di dollari per sostenere le elezioni parlamentari del 2020 in Kirghizija. Formalmente, la somma dovrebbe andare alle organizzazioni impegnate nel monitoraggio del processo elettorale e nella copertura mediatica del voto: l’obiettivo, è quello di aiutare i movimenti filo-occidentali a entrare in parlamento.

Nel 2015, dopo un alterco col Dipartimento di Stato, Biškek aveva denunciato l’accordo di collaborazione con gli USA; poi, lo scorso anno, il Presidente Sooronbaj Žeenbekov, si era pronunciato per la ripresa della cooperazione. In risposta, il Dipartimento di Stato ha assicurato che gli Stati Uniti sono impegnati a rafforzare relazioni “basate sulla fiducia, l’uguaglianza e il rispetto reciproco”: cioè, il Pentagono punta alla riapertura della base aerea di Manas, attivata nel 2001 per le operazioni NATO in Afghanistan e chiusa nel 2014 per decisione dell’ex Presidente Almazbek Atambaev.

Il teatro europeo è invece quello in cui Washington mette in conto uno scontro diretto con la Russia. Se l’ex comandante delle forze NATO in Europa, l’ammiraglio USA James Stavridis, prospetta un confronto “pacifico” e chiede nuove sanzioni (quelle immancabili per il “Nord stream-2”, ad esempio), la cessazione di ogni cooperazione negli affari internazionali e l’aperto sostegno di quei gruppi che in Russia “aspirano alla democrazia”, un altro ex comandante (fino allo scorso 3 maggio), il generale Curtis Scaparrotti, ha dichiarato che i Paesi europei devono esser pronti a un conflitto che potrebbe scoppiare in qualunque momento e devono concentrare ai propri confini quante più truppe e mezzi corazzati possibili.

Una opzione che viene accolta di buon conto da molte capitali est-europee; ma solo fin tanto che ciò non cozza con le rispettive pretese di espansione. Caso emblematico è quello di Budapest, per cui i nazionalisti ungheresi, come osserva Vladimir Laktjušin su iarex.ru, si schierano dalla parte di Mosca: bramando metter le mani sulla Transcarpazia, sono pronti a riconoscere la Crimea russa.

Il sito nazista ucraino Mirotvorets ha inserito nella lista nera il presidente del partito nazionalista ungherese “Jobbik” (legato a Rassemblement National, Alternative für Deutschland, Lega, Freiheitliche Partei Österreichs, la russa Rodina, tanto per dire) Thomas Schneider, che di recente ha visitato la Transcarpazia, abitata da una forte minoranza magiara.

Durante la visita, Schneider avrebbe parlato della prospettiva di una “futura autonomia” della Transcarpazia (nel 2014, “Jobbik” parlava addirittura di separazione) ed è stato perciò accusato da Mirotvorets di “attentato alla sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina”. Formalmente, la reazione ucraina appare legittima; ma è il caso di prestare attenzione alla natura di entrambi i pretendenti: da un lato, ansiosi di metter le mani su pezzi di territorio altrui (lo stesso può dirsi per le mire polacche, rumene, slovacche, su altre regioni ucraine) e, dall’altro, decisi ad affermare la “totale ucrainizzazione” di popolazioni non ucraine.

In tutto questo “gioco” sullo scacchiere mondiale, gli unici a rimanere a bordo campo sono gli interessi delle masse e dei popoli.

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