Per il quindicesimo venerdì di fila dal 22 febbraio il popolo algerino è sceso in piazza.
Per il quarto venerdì di ramadan, Algeri e le principali città dello stato nord-africano sono state “invase” da una marea umana in un frangente politico decisivo.
Domenica 2 giugno infatti, il Consiglio Costituzionale, ha reso pubblico il suo parere che giudica impossibile tenere le elezioni presidenziali il 4 luglio e necessaria una successiva comunicazione della data in cui dovrebbero tenersi: è la prima volta nella storia dell’Algeria repubblicana che questo avviene per due volte consecutive.
Il 7 luglio si uscirà dalla road map tracciata dalle alte sfere dell’esercito con l’articolo 102, esaurendosi i 90 giorni entro il quale il presidente ad interim doveva convocare nuove elezioni – per il quale la costituzione non prevede un prolungamento della carica transitoria – e quindi si aprirebbe la strada agli articoli 7 e 8 della Costituzione.
Un impasse politico che sembra avere esaurito le alchimie finalizzate ad un “cambiamento gattopardesco” che sta caratterizzando la gestione della crisi da parte dell’establishment e che fino ad ora non trova via d’uscite percorribili accettate dalla piazza e dall’opposizione politica che se ne fa interprete.
Le ragioni dell’Hirak, nonostante alcune acquisizioni importanti durante questi mesi, permangono immutate considerato che il processo di transizione democratica è tuttora lettera morta, e volti e pezzi del “vecchio regime” continuano a determinare le sorti dell’Algeria.
La piazza del venerdì, le mobilitazioni studentesche del martedì ed i numerosi appuntamenti di un movimento operaio organizzato nuovamente combattivo, insieme alle iniziative di parti significative della società civile (magistrati, giornalisti, avvocati tra gli altri), hanno portato alle dimissioni di Bouteflika – dopo il suo annuncio di rinuncia alla candidatura – , al posticipo delle elezioni presidenziali d’aprile, al flop delle presidenziali previste per il 4 luglio (per le quali nessuno si è tra l’altro proposto come candidato) e alle inchieste giudiziarie contro alcuni alti responsabili del “sistema”.
Gli arresti spettacolari di Said Bouteflika, potente fratello dell’ex presidente, e degli ex generali a capo dei servizi di sicurezza interni – Tertag e Mediène – sono parte di questa strategia giudiziaria che tende al “regolamento politico” tra clan rivali, legittimato come espressione della volontà popolare, all’interno della visione del mondo dell’esercito tesa ad accreditare ipotesi complottistiche che andrebbero a braccetto con l’”avventurismo” dell’opposizione e alla sua richiesta di una reale transizione.
Il regime, attenendosi pretestuosamente ad uno stretto rispetto della Costituzione (l’articolo 102 invocato dalle alte cariche dell’esercito), si è rifiutato di rispondere alle principali rivendicazioni del popolo: la partenza delle “2B” (Bensalah e Bedoui) e l’organizzazione di una vera transizione democratica.
Il governo di Bedoui, recentemente recatosi in Arabia Saudita, sembra volersi consolidare nella durata – di fatto negando il suo carattere “provvisorio” – e sta prendendo decisioni importanti che riguardano l’avvenire del paese, mentre i suoi ministri nel corso di questi mesi sono stati impossibilitati a recarsi in diverse città – per il rifiuto popolare – e numerosi eletti locali e magistrati si sono rifiutati di adempiere agli obblighi per la preparazione delle “previste” elezioni presidenziali del 4 luglio, fortemente volute dalle alte sfere dell’esercito.
Gaïd Salah – capo di stato maggiore dell’ANP – lo scorso martedì ha nuovamente parlato, invitando ad una dialogo costruttivo cui le forze d’opposizione si sottraggono e che la piazza rifiuta a gran voce, a differenza dell’arco di forze politiche che aveva sostenuto anche l’ipotesi del quinto mandato per Bouteflika, allineatesi alle proposizioni di Salah.
La settimana si è caratterizzata per due importanti prese di posizione che delineano la necessità di una “transizione” cui proprio Salah, per usare un eufemismo, si era detto fortemente contrario. L’influente Organizzazione Nazionale dei Moudjahidine (ONM) e un gruppo di Ulema mussulmani algerini – che domenica, attraverso il suo presidente Abderazak Guessoum, si è espresso per il “siluramento” di Bensalah, avendo fallito nell’organizzare le elezioni – si sono pronunciati in favore di un periodo di transizione “democratica”, contribuendo ad indebolire le posizioni del generale già minate dal fatto che i suoi sostenitori politici sono fortemente delegittimati a livello popolare (a cominciare dall’ex partito unico FLN) e attraversano una forte crisi interna, scatenando feroci lotte intestine.
L’ONM aveva preso già posizioni molto dure contro una parte della vecchia classe dirigente con l’inizio delle mobilitazioni popolari, accusandola di avere dilapidato il denaro pubblico per fini privati e di avere tradito lo spirito della dichiarazione iniziale della lotta di liberazione algerina del novembre 1954, perno dell’associazione dei vecchi combattenti che dal 1954 al 1962 hanno combattuto contro il colonialismo francese.
Sabato 1 giugno, il terzo incontro di consultazione della società civile tra tre soggetti, a loro volta composti da differenti esperienze – La Confederazione dei Sindacati Algerini (l’altra centrale sindacale la UGTA sta conoscendo una vivace contestazione della dirigenza), il Forum Civile per il Cambiamento, il Collettivo della Società Civile per la Transizione Democratica – hanno discusso delle possibili exit strategy all’attuale crisi, dando vita ad una commissione incaricata di elaborare un documento che verrà reso pubblico il 15 giugno.
Nell’incontro è stata reiterata la necessità di una transizione democratica che concretizzi la rottura con il sistema ed espressa la necessità di un dialogo responsabile, serio e ragionevole con la necessità della partenza delle tre B, al fine di rispondere alle rivendicazioni del movimento popolare azionando gli articoli 7 e 8 della Costituzione, che ribadiscono la sovranità popolare come legittimazione del potere politico.
La morte – all’inizio di questa settimana – del militante mozabita per i diritti umani Kemel Eddine Fekhar, deceduto durante il suo sciopero della fame in carcere, cui i manifestanti dell’Hirak hanno reso omaggio tra l’altro con un minuto di silenzio nelle varie città teatro delle mobilitazioni, ha aperto uno squarcio su una realtà rimossa: la prigionia politica e di opinione in Algeria, che riguarda anche alcuni detenuti tra l’atro imprigionati per essersi espressi contro la possibilità del quinto mandato di Bouteflika, di fatto anticipando l’opposizione popolare iniziata il 22 febbraio!
E Louisa Hanoune – leader del PT (il maggiore partito d’opposizione di sinistra) – è tuttora in carcere da alcune settimane, mentre una mobilitazione internazionale per la sua mobilitazione acquista sempre più ampiezza.
Dallo scorso venerdì il dispositivo delle forze dell’ordine ad Algeri è sempre più pressante e cerca di imporre nuovamente quello stato d’emergenza, rotto dall’Hirak, che proibiva il manifestare nella capitale.
Anche questo venerdì, come era successo martedì con gli studenti, è stato il numero e la determinazione dei partecipanti a rendere inefficace il dispositivo, nonostante i tentativi effettuati per impedire la mobilitazione e vietare alcuni punti della città assurti a simboli del movimento.
Ma l’Hirak non sembra arrestarsi…
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