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Trump muove contro la Cina, ma è sotto scacco

Ἀ la guerre comme à la guerre… Se Trump aveva sperato che la Cina si piegasse serenamente al suo volere, beh, sembra proprio che abbia fatto male i conti.

La guerra dei dazi ha ormai superato il punto di non ritorno, diventata effettiva dopo le scadenze “tecniche” che avevano lasciato ancora un margine di trattativa.

E la mossa strategicamente più forte di Pechino – per ora solo ventilata, ma molto seria – è il blocco delle esportazioni di terre rare verso gli Stati Uniti.

Questi minerali – difficili anche da estrarre in quanto non si presentano quasi mai in forma pura, ma in concentrazioni più o meno alte insieme ad altri – sono fondamentali per molte delle applicazioni tecnologiche oggi decisive: dagli smartphone ai motori ibridi.

Dunque chi ne possiede in grande misura ha un vantaggio enorme sui concorrenti, se possiede anche un’industria tecnologicamente evoluta. La Cina, com’è noto, è oggi il principale esportatore di terre rare; con la misura del 95% del totale, anzi, è praticamente monopolista del settore.

Se questi minerali fossero abbondanti nel Niger o nel Bourkina Faso, per l’imperialismo sarebbe tutto sommato un problema facile da risolvere (in quei paesi africani c’è l’uranio, e infatti…). Ma con la Cina del 2020 non si può parlare nello stesso tono, né usare gli stessi metodi.

Dunque la “guerra dei dazi” diventa immediatamente guerra tecnologica, con gli statunitensi già in svantaggio. Per esempio nel 5G, fondamentale per le telecomunicazioni.

Qui il match winner è al momento Huawei, che è entrato nella “lista nera” yankee, che ne hanno addirittura fatto arrestare – in Canada – Meng Huanzu, amministratrice delegata e figlia del fondatore. Era bastata la minaccia di ritorsione sulle terre rare a far momentaneamente riaprire “il dialogo” da parte di Trump, che voleva inserire la questione tra tutti i temi del negoziato con Pechino.

Ma la Cina si rifiuta di trattare “con una pistola puntata alla tempia” e quindi si va attrezzando alla “nuova lunga marcia”, affilando le sue molte armi, sia finanziarie che diplomatiche.

Contrariamente alle attese Usa, infatti, Wang Shouwen, vice ministro del Commercio, ha escluso per ora una ripresa delle trattative: «La Cina è aperta ai colloqui ma ci si deve basare sul rispetto reciproco, sulla reciproca comprensione e sull’uguaglianza di trattamento».

Il punto di frattura, del resto, non è di piccolo conto. Trump pretende che i cinesi “aprano” le loro società all’eventualità di scalata da parte di società straniere. Fin qui, invece, anche le più audaci joint venture si erano arrestate sul limite del 51% di proprietà cinese.

Cedere su questo punto, in effetti, sarebbe per i cinesi una rinuncia al proprio modello di sviluppo, fortemente orientato dalla capacità di programmazione del Partito Comunista.

L’informazione mainstream, su questo punto, non aiuta molto a capire. Presentano per un verso i colossi produttivi cinesi come “normali” società capitalistiche, quasi fossero copie conformi di quelle occidentali. Poi, quando l’America chiama, cominciano a lamentare “l’ingerenza” dello Stato e del Partito.

La realtà è leggermente più complicata, e anche noi ne sappiamo abbastanza poco. Però, per esempio, forse sarebbe importante informare il pubblico occidentale che un gigante tecnologico come Huawei – capace di investire in ricerca e sviluppo, nel solo 2017, ben 11,6 miliardi di euro (il 15% dei ricavi); più della metà di quanto investe l’Italia! – è… una cooperativa. Di proprietà dei suoi lavoratori, neanche dello Stato…

Si comprende allora che il modo di guardare a questa guerra è decisamente strabico. E le reazioni impreviste. In quest giorni, altro esempio, è stata realizzata la fusione tra Baowu Steel Group (l’ex Baosteel, già numero uno della siderurgia cinese) e Magang Steel. Due giganti dell’acciaio – solo la prima produce più di quanto non faccia l’intera siderurgia statunitense – di proprietà statale, nel tentativo di «rafforzare la competitività internazionale».

In termini marxiani diremmo: per contrastare la caduta del saggio del profitto, che è evidente anche nel caso del prolungatissimo e vincente sviluppo cinese.

Sul lato opposto – notizia di ieri – abbiamo Apple, Facebook e Amazon finiscono sotto accusa da parte delle autorità americane, dopo che identica disavventura era accaduta a Google. In un caso c’è stato intervento dell’Antitrust, negli altri della Federal Trade Commission american.

Perdite di borsa a parte, a finire sotto inchiesta è la dimensione stessa di queste aziende, che non hanno certo mai lesinato su strategie e pratiche monopolistiche.

E quindi la realtà ci presenta plasticamente lo scontro tra due differenti modelli dello stesso modo di produzione. Uno lasciato interamente al “libero mercato”, difficile da ricondurre a strategie collettive (nazionali, nel caso Usa), se non con interventi repressivi ex post. L’altro fatto crescere all’interno di una programmazione di medio-lungo periodo, secondo standard e obbiettivi decisi politicamente.

Se doveste affrontare il problema della transizione ecologica, quale dei due potrebbe dare qualche risultato in tempi non biblici?

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