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L’Algeria in transizione e il suo profilo strategico

L’importanza di ciò che ta avvenendo in nord-Africa – in special modo in Algeria ma non solo – in particolare per le politica che pertiene all’Italia e all’Unione Europea, sembra confermata dalla focalizzazione sul Maghreb dell’ultimo numero della più prestigiosa rivista di geopolitica del nostro paese: “Limes”.

Il titolo del suo sesto numero è più che mai eloquente: “Dalle Libie all’Algeria affari nostri” con un sottotitolo che è tutto un programma: “la risacca del nord-Africa in subbuglio incombe anche sull’Italia. Perché dobbiamo fare pace con la Francia”.

L’editoriale di Lucio Caracciolo si conclude con una sintesi storica dell’evoluzione della geopolitica italiana nell’area e con la constatazione che si potrebbero aprire spazi di intervento interessanti, visto la derubricazione del Mediterraneo sud-occidentale a mera “appendice” delle priorità strategiche di Washington. La quale “veglia dall’alto grazie alla sua superiorità militare, ma tende a giocarvi di rimessa. Soprattutto preoccupata di frenarvi la penetrazione cinese, russa e turca, oltre a impegnarsi nei rutinari safari anti-Jihadisti”.

Naturalmente l’azione italo-francese preconizzata dovrebbe essere benedetta e vigilata dagli Stati Uniti, ma nei margini apertisi: “ci sarebbe dunque spazio per un compromesso franco-italiano – su cui termini Limes solleciterà in autunno un dialogo transalpino a più voci”.

Per Caracciolo, l’azione della seconda e terza potenza della UE, entrambe con un passato coloniale – ed un presente neo-coloniale, aggiungiamo noi – sarebbe una specie quindi di “supplenza” alle priorità geo-strategiche nord-americane in funzione di una “stabilizzazione” che impedisca ulteriori escalation belliche, e di fatto sia da argine alla ulteriore penetrazione di altri player nell’area, i quali hanno comunque una consolidata relazione con i diretti interessati in loco. Si pensi agli ingenti investimenti cinesi in funzione della “Nuova Via della Seta”, all’esportazione russa di armi, alla sostegno turco-qatariota ad una fazioni principali della proxy war libica.

La Libia, aggiungiamo noi, è il chiaro esempio del fallimento europeo ed occidentale nel gestire il dopo regime change violento messo in atto degli stessi destabilizzatori: un colpo di stato che una sinistra radicale senza più visione scambiò per l’ultimo sussulto delle “Primavere Arabe”.

Con la fine della Jamahiriya, la Libia è stata trasformata in un territorio dove i signori della guerra locali, con alleanze a geometria variabile, combattono anche una guerra “conto terzi”, senza che sia prefigurabile oggi una exit strategy che non sia l’all-in di uno dei soggetti coinvolti delle Libie, per riprendere l’espressione di “Limes”.

Tornando alle suggestioni di Caracciolo: a cosa dovrebbe servire questo auspicato compromesso?

“Per abbozzare almeno le grandi linee geopolitiche parallele deputate a contenere le periodiche eruzioni di instabilità incubate nell’Africa profonda, i cui lapilli ci piovono addosso via Quarta Sponda. Prima che l’incrociarsi d’influenze esterne alla Terra di Hobbes ci facciano pagare i troppi peccati di negligenza. E l’occhio di Venere si sveli occhio di Marte”.

Ma lo “strabismo” che Caracciolo attribuisce al “nostro” sguardo nell’osservare la Sponda Sud del Mediterraneo, che dà il titolo al suo intervento, è un deficit attribuibile anche a coloro i quali (il variegato mondo della sinistra) guardano al Mare Nostrum solo attraverso il prisma delle conseguenze di una precisa politica neo-coloniale: la fase finale – prima dell’approdo incerto – nel Vecchio Continente dei migranti e le sue spesso tragiche conseguenze. Ponendo attenzione, al massimo, solo alle fasi finali di una politica di gestione militare dei flussi che incomincia ben prima a livello geografico (come mostra il “Khartoum Process” e il ROCK), con un approccio esclusivamente “umanitario”, drammaticamente insufficiente a cogliere la sfida politica attuale; e non pone invece attenzione ai processi di rottura che si stanno consumando.

E quindi assumiamo a nostro modo l’auspicio di Caracciolo per il quale “definire le nostre coordinate geopolitiche impone di allineare e allargare lo sguardo. A partire dal Mediterraneo, l’ambiente geografico e strategico nel quale affondano le radici l’Italia, e in certa misura, della penisola europea”.

A nostro modo vuol dire: comprendere la profondità strategica in cui collochiamo “qui ed ora” la nostra azione per la trasformazione politico-sociale, a partire dal nostro Paese, facendo l’analisi “concreta della realtà concreta” sia dei progetti che l’imperialismo coltiva su quelle aree che su quei popoli, sia dei processi di rottura in corso.

Sia detto tra parentesi, la prestigiosa rivista geopolitica, per iniziare a colmare questo deficit di sguardo, ha intanto dedicato un buon 120 (compreso parte dell’editoriale) delle 264 pagine del numero proprio all’Algeria, cui comunque rimandiamo, vista la mole di informazioni e gli spunti offerti nei dodici interventi dedicati.

***

Questa lunga premessa era doverosa per dare la cornice interpretativa di ciò che sta avvenendo in Algeria con l’Hirak, che seguiamo con attenzione e costantemente fin dai suoi primordi, anche negli aspetti di questo processo che potremmo definire la ricchezza del movimento reale e le sue specificità, le sfide che sono poste all’opposizione politica, il suo ancoramento al proprio patrimonio di lotta, e la possibilità di ulteriore sganciamento dal neo-colonialismo UE e dall’insidioso ruolo degli USA, nonché di quell’ “asse del male” (Egitto, Arabia Saudita e Israele) che è oggi uno dei maggiori attori regionali.

E ci stupiamo di come tre figure rivelatrici del Novecento italiano – come Giovanni Pirelli, Gillo Pontecorvo ed Enrico Mattei – che hanno indissolubilmente legato la loro attività all’Algeria e che testimoniano dell’importanza del paese maghrebino per l’economia, la politica e la cultura del nostro paese, sembrano essere messi nel dimenticatoio della cosiddetta “Sinistra Radicale”…

Le mobilitazioni per il 23esimo venerdì di protesta, nonostante il caldo ed un dispositivo securitario immutato, si sono svolte in tutte le città algerine senza che ci siano stati segnali di deflusso, ribadendo le parole d’ordine fin qui urlate a gran voce, per un processo di transizione democratica che rompa con il sistema di governo che ha caratterizzato il Paese dalla fine degli anni Novanta in poi, liberi i prigionieri politici e d’opinione, collochi l’esercito come garante di tale cambiamento, ma senza il ruolo politico determinante che ha assunto fin qui attraverso il capo di Stato Maggiore dell’Esercito (ANP) Gaïd Salah.

Il generale è tra l’altro il numero 2 del governo provvisorio presieduto da Bedoui, con la presidenza ad interim assunta da Bensalah dopo le dimissioni di Bouteflika; un governo che ha oltrepassato il periodo stabilito dalla Costituzione (novanta giorni) il 9 luglio, a pochi giorni dalla data della presunta tenuta delle elezioni presidenziali il 4 luglio, rimandate sine die, e ormai legate alle sorti del travagliato avvio del “dialogo” che l’establishment sta in maniera molto difficoltosa mettendo in piedi.

Semplificando, in Algeria sono emersi tre campi politici, tralasciando “lo Stato profondo” e il vecchio ceto politico-economico, falcidiati dai tentativi di risoluzione “per via giudiziaria” della transizione da parte dell’alte cariche dell’esercito,e tralasciando anche la componente all’islam politico più retrivo, che non sembra per ora esercitare un ruolo significativo.

Il primo campo è costituito dai corpi intermedi legati al vecchio regime – FLN in testa, l’ex “partito-unico” – che si sono riallineati pedissequamente alle proposte di Salah, come tentativo disperato per essere risparmiati dalla scure dei provvedimenti giudiziari per la corruzione strutturale che ha regnato fino ad ora, e per conservare una loro ragion d’essere, vista la delegittimazione popolare e la guerra intestina che li riguarda tuttora. La dirigenza della UGTA – il maggiore sindacato algerino – a lungo perno del regime, non è alieno da questa dinamica.

Il secondo campo è quello dei soggetti che auspicano un processo di transizione che colga le possibilità di dialogo offerte, nel momento in cui è apparso chiaro il fallimento della strategia di organizzazione delle elezioni presidenziali nei tempi auspicati – il 4 luglio – come uscita dalla crisi aperta con l’Hirak, per affrontare un impasse che non sembrava avere altri sbocchi se non una apertura a soggetti non facenti parte del vecchio apparato di potere e nemmeno dell’esercito, con il fine di organizzare le elezioni.

In sintesi, questo campo di forze auspica come soluzione politica l’organizzazione delle elezioni politiche presidenziali, unico possibile sbocco di un dialogo, se vengono rispettate alcune condizioni che rispecchino le richieste minime del movimento (tuttora inattuate, nonostante quasi sei mesi di mobilitazioni), e che di fatto sono le condizioni poste dalle personalità selezionate per comporre l’ auspicato organismo indipendente, su cui torneremo.

Un terzo campo è composto da quelle forze che antepongono la necessità dell’elezione di una assemblea costituente come conditio sine qua non per l’avvio di un processo di reale trasformazione politica, convergendo però nei contenuti sulle premesse poste per il dialogo dal campo più incline ad iniziare una interlocuzione costruttiva con l’attuale establishment politico, diretto erede dell’era Bouteflika.

In estrema sintesi il primo e il secondo campo convergono sulla necessità di apertura di un dialogo seppur da prospettive diverse, il secondo e il terzo campo convergono sui contenuti emersi dall’Hirak, che sono i punti dirimenti per non alienarsi il consenso popolare.

***

Occorre fare una breve sintesi dell’ultima fase politica algerina.

Il primo invito al dialogo giunge dal discorso del presidente ad interim G. Salah, il 30 aprile a Biskra, che viene confermato ufficialmente pochi giorni dopo, il 5 maggio, con un discorso alla nazione che viene rigettato dall’opposizione per la reale assenza di contenuti; ma che viene ribadito ancora dallo stesso generale il 28 maggio, a Tamanrasset, con una sorta di appello alla responsabilità nazionale che “porrebbe l’Algeria al di sopra di ogni considerazione”.

Il 1 giugno, il Consiglio Costituzionale constata l’impossibilità di tenuta delle elezioni previste per il 4 luglio e le rimanda sine die. Contestualmente emette una dichiarazione costituzionale, permettendo al capo di stato ad interim di restare al suo posto anche dopo la fine del suo mandato legale, il 9 luglio, di fatto inscrivendo in una durata indefinita e fuori dalla cornice costituzionale – cosa che pare di per sé paradossale, vista la funzione teorica dell’organismo – quello che doveva essere un ruolo pro tempore.

Il 6 giugno, in un nuovo discorso del capo dello stato, si torna a parlare di dialogo, prefigurando per la prima volta la preparazione delle urne, per le quali però non viene indicata alcuna data, invitando a “dibattere tutto ciò che concerne l’organizzazione di una elezione presidenziale” che dovrebbe essere organizzata “senza perdite di tempo”.

Ma anche questo nuovo discorso viene rifiutato dalla piazza e dall’opposizione, che non vuole far gestire la transizione alle due odiate “B”; la terza, Tayeb Belaïz, presidente del Consiglio Costituzionale, aveva dato le sue dimissioni il 16 aprile.

In questo frangente prendono forma e si polarizzano differenti campi della società civile e dell’opposizione – come abbiamo sommariamente sintetizzato – che cominciano a incontrarsi e a formulare delle proposte; come la conferenza del 15 giugno, che raggruppa più di settanta associazioni e sindacati, il forum del dialogo del 6 giugno organizzato dai partiti e delle forze del cambiamento e l’appello del 18 giugno, scaturito dai partiti delle forze dell’Alternativa democratica, che richiedono un periodo di transizione con una rottura più marcata con il regime.

Il 3 luglio Bensalah – nella prospettiva di organizzare le elezioni presidenziali – colloca il “dialogo” ipotizzato senza la partecipazione di alcuna istituzione dello Stato, compreso l’Esercito, chamando ad una concertazione a tutto campo sulla modalità al processo elettorale, comprendente la revisione delle liste elettorali e l’istituzione di una istanza elettorale indipendente.

Una novità a tutti gli effetti.

Questa proposta fa breccia in parte dei ranghi delle forze dell’opposizione, ma non nella piazza, che continua con le sue parole d’ordine “dégagiste” e ostili al dialogo “con la banda”.

Rimane però uno iato tra la proposta teorica di apertura e la chiusura pratica degli spazi democratici reali, dalle manifestazioni di piazza ai media, dalla mancata liberazione dei prigionieri politici e di opinione alla dipendenza della magistratura dal vecchio regime, e il ricordo vivo delle durissime parole del generale…

Il “Forum civile per il Cambiamento” prende in mano la situazione il 17 luglio e propone un panel di 13 personalità per condurre il dialogo cui ha chiamato due settimane prima il potere politico, e che quasi subitaneamente accoglie la proposta, dichiarando che una lista definitiva verrà resa pubblica il prima possibile; ma numerose personalità declinano l’invito o pongono precise condizioni e garanzie di apertura effettiva.

Giovedì 25 luglio, viene proposta una lista – che non comprende comunque alcune delle personalità di spicco proposte (Mouloud Hamrouche, Ahmed Taleb Ibrahimi e Djamila Bouhired) – ma che include sei persone inattacabili per la loro credibilità e la vicinanza all’Hirak: Karim Younès, Fatiha Benabou, Smaïl Lalmas, Azzedine Benaïssa, Lazhari Bouzid e Abdelouahab Bendielloul.

È lo stesso Bensalah che si impegna personalmente a dare seguito immediato alle promesse di apertura.

Questo, come dimostrano le reazioni dei giorni successivi, non ha voluto dire che il processo di “dialogo” sia stato messo in moto in maniera irreversibile, né che abbia trovato l’appoggio sperato, anzi…

La fermezza di Karim Younès nel ribadire le pre-condizioni per il dialogo dimostrano come la strada sia più che in salita.

I punti irrinunciabili per l’istituzione del dialogo sono 7: liberazione dei prigionieri politici e d’opinione, rispetto del carattere pacifico delle manifestazioni da parte delle forze dell’ordine, cessazione degli atti di violenza e delle aggressioni contro i manifestanti delle mobilitazioni del venerdì e quelle studentesche del martedì, alleggerimento del dispositivo poliziesco in particolar modo nella capitale e suo completo accesso il giorno del mercato, “liberazione” del campo mediatico così come chiesto dalla piazza e dalle organizzazioni professionali, appello alle dimissioni del governo in carica e sua sostituzione con un governo formato da tecnici non di parte.

Come ha scritto sul suo profilo FB Younès:

La mia risposta è: questa settimana sarà decisiva. Se gli impegni presi dalla Presidenza non cominceranno ad essere attuati, il panel, Tajama3th n’el khir, si riunirà e esaminerà l’eventualità della sospensione dei suoi lavori e potrà procedere anche verso la sua auto-dissoluzione.”

Vedremo se l’unica chance per uscire dall’impasse politico, sotto una piazza che non sembra voler desistere dall’esercitare la sua pressione, chiedendo la dipartita del sistema, troverà una qualche concretizzazione alla luce del fatto che con toni diversi non sono poche le forze dell’opposizione che denunciano il “simulacro di dialogo” e l’inaccettabilità di questo percorso, se non è coronato da una reale transizione…

Il Popolo, dalla piazza del ventitreesimo venerdì di manifestazione, fa sapere che “dopo avere vintoto la coppa (Africa, ndr), vuole cacciare il sistema”.

Ipse Dixit.

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