Ricorre in questi giorni il quinto anniversario della sanguinosa battaglia di Ilovajsk, forse il principale scontro – insieme a quello di Debaltsevo, nel febbraio successivo – che mise in luce la resistenza delle milizie del Donbass contro l’aggressione ucraina.
Ilovajsk rivestiva un significato strategico di prim’ordine: importante snodo ferroviario e stradale, una decina di km a sud dell’importante arteria H-21, che unisce Lugansk a Donetsk.
Il 10 agosto partì l’offensiva di Kiev, con l’attacco dei battaglioni “Donbass” e “Šakhtërsk”, ricorda Danil Bezsonov su news-front.info, dopo tre giorni di martellamento d’artiglieria contro le posizioni delle milizie. I neonazisti furono respinti a prezzo di dure perdite e il 12 agosto fu la volta dell’esercito a tentare l’offensiva, con uguali risultati.
Nuovo tentativo il 18 agosto da parte di esercito e battaglioni “Donbass”, “Dnepr-1”, “Mirotvorets”, “Ivano-Frankovsk”, “Kherson” e “Svitjaz”: questa volta le forze di Kiev riuscirono a prendere alcuni quartieri occidentali della città.
Il 19 cominciarono le battaglie strada per strada, che provocarono la distruzione di oltre la metà degli edifici civili e di numerose strutture sanitarie. Il 26 agosto, la controffensiva delle milizie portò all’accerchiamento pressoché totale delle forze di Kiev. Il 29 agosto Vladimir Putin invitò le milizie della DNR ad aprire un corridoio umanitario per consentire alle truppe ucraine di mettersi in salvo.
Secondo il comandante del battaglione “Donbass” Semën Semenčenko, le perdite ucraine, tra morti e feriti, superarono i mille uomini; le milizie entrarono in possesso di un’enorme quantità di armi leggere e pesanti, e di mezzi blindati abbandonati dagli avversari.
Nel rapporto parlamentare sulla disfatta di Ilovajsk, la responsabilità veniva fatta ricadere sul ministro della difesa Valerij Gheletej (oggi comodamente a riposo, si dice, nella propria tenuta londinese, del valore di circa 25 milioni di sterline), sul Capo di stato maggiore Viktor Muženko e sul Capo dello staff della “Operazione anti-terrorismo” Viktor Nazarov, il quale ultimo parlò successivamente anche di migliaia di diserzioni durante la battaglia.
Secondo gli osservatori, la battaglia di Ilovajsk sgretolò ogni fiducia tra truppe regolari (in massima parte personale di leva e a ferma breve) e battaglioni neonazisti.
In questi cinque anni in Donbass non si cessa di contare le vittime, civili e militari. Si contano anche in questi ultimissimi giorni, a dispetto dell’ennesimo cessate il fuoco proclamato il 21 luglio. Venerdì scorso, sotto il fuoco ucraino, erano rimasti uccisi un civile e due miliziani della DNR; feriti altri 6 miliziani.
Quella che ha suscitato più di un interrogativo è stata la morte martedì scorso, in trincea, nell’area di Pavlopol, una quarantina di km a nordest di Mariupol, di quattro fanti di marina ucraini, a quanto pare colpiti da una granata: non è affatto chiaro sparata da chi e con quale arma. Kiev ha ovviamente incolpato le milizie; queste ultime, parlano di scoppio di un ordigno durante lo stivaggio di mine antiuomo e affermano che, in ogni caso, l’incidente si è verificato lontano dalla linea di contatto, al di là del raggio di portata delle loro armi.
Su odnarodyna.org, si arriva a ipotizzare una mossa del nuovo Presidente Vladimir Zelenskij – dopo le infruttuose telefonate a Putin e Macron per la convocazione del “formato normanno”: Francia, Germania, Russia, Ucraina – o contro di lui, da parte del “partito della guerra” ucraino.
D’altronde, il 7 agosto, la ricognizione della DNR aveva rilevato una notevole attivizzazione delle forze ucraine nell’area di Mariupol, con l’arrivo verso le posizioni avanzate di unità della riserva delle 35° e 36° Brigate della fanteria di marina e di artiglierie da 152 e 122 mm. Messo in allarme a Mariupol anche il reggimento “Azov”; accresciuta la ricognizione aerea di droni lungo la linea di contatto.
Il giorno precedente, Zelenskij aveva esonerato, dopo appena tre mesi dalla nomina, il Capo delle operazioni in Donbass, il generale Aleksandr Syrskij, sostituendolo col generale Vladimir Kravčenko. A differenza di Syrskij, nota sarcasticamente ritmeurasia.org, resosi famoso per la catastrofe nella sacca di Debaltsevo del febbraio 2015, il successore non ha la reputazione di “grande kotlovodets”: gioco di parole difficilmente traducibile, coniato con “polkovodets” (condottiero) e “kotël” (sacca o accerchiamento).
Ma, in ogni caso, a Lugansk constatano che la sua nomina contraddice le promesse di pace di Zelenskij: considerata l’intera biografia di Kravčenko, la sua “ardente russofobia”, le dichiarazioni sulla “vittoria contro i moskaly” e la sua direzione delle operazioni, senza mai esser stato in prima linea, nella LNR se ne conclude che “fattore principale per la sua nomina sia l’odio nei confronti del popolo russo, e non certo l’esperienza di guerra, che non possiede. Purtroppo, Kiev ha ancora bisogno di un castigatore a questa carica, e non di un operatore di pace”.
Non a caso, nella cerchia di Vladimir Zelenskij non si escludono piani bellicosi. Il suo consigliere militare, Ivan Aparšin (che qualcuno dà come probabile prossimo ministro della difesa) giudica “verosimile un conflitto con la Russia a breve termine”.
Il politologo Aleksandr Šatilov ha dichiarato a Novorosinform che, sebbene dal cessate il fuoco del 21 luglio l’intensità dei bombardamenti ucraini sia diminuita, è però difficile definire le mosse di Zelenskij come volte a instaurare un dialogo con le Repubbliche popolari: sempre più spesso si sentono dichiarazioni del suo entourage sulla “necessità di riprendersi il Donbass” con la forza. Nessun discorso sul dialogo diretto con LNR e DNR”, previsto invece dagli accordi di Minsk.
Šatilov parla di “duplicità rispetto a Donbass e Russia” da parte della cerchia di Zelenskij: da un lato, “sembrerebbero esserci degli impulsi di pace positivi; dall’altro, non si vogliono attuare gli accordi di Minsk, né stabilire relazioni costruttive con la Russia, e nemmeno rifiutare il precedente corso di Porošenko”, la cui politica anti-russa, d’altra parte, era quantomeno chiara e netta.
Šatilov mette in guardia dalle false “iniziative di pace” con cui si cerca di “addormentare la vigilanza della popolazione”, mentre è del tutto possibile che, di punto in bianco, “le truppe ucraine passino all’offensiva. Non a caso, l’establishment ucraino ricorda l’esperienza della Krajina serba”, allorché, come ricorda Novorosinform, nell’agosto 1995, le truppe di Croazia e Bosnia-Erzegovina liquidarono le Repubbliche di Krajina serba e della Bosnia occidentale, in una delle più grandi pulizie etniche d’Europa”.
Suonano dunque più che aggressive le dichiarazioni rilasciate, immediatamente dopo la morte dei quattro fanti di marina a Pavlopol, dal rappresentante ucraino al Gruppo di contatto a Minsk, Roman Bessmertnyj, che ha senz’altro incolpato del fatto le milizie, ha minacciato l’abbandono dei colloqui, “fino a che non si riunirà il formato normanno” e ha proposto di iniziare a colpire obiettivi predeterminati, oltre a “interrompere le forniture di acqua, elettricità, merci al territorio di L-DNR”.
Interessante l’analisi di colonelcassad, che ricorda come Vladimir Zelenskij fosse andato alle elezioni presidenziali con lo slogan “raggiungeremo la pace in Donbass”, mentre invece l’elenco delle perdite umane che si allunga ogni giorno testimonia come “le sue promesse siano sospese in aria, proprio come con Porošenko, allorquando, sullo sfondo di una vuota retorica su Minsk e “formato normanno”, si avevano continui rapporti su bombardamenti e perdite”.
Di fatto, sembra di intravedere un “forte desiderio di incolpare Russia, LNR e DNR per il fallimento delle “iniziative di pace”, e allargare le braccia come per dire “ho fatto tutto quel che potevo; io volevo la pace, ma quel malvagio di Putin non la vuole”.
Il politologo russo Sergej Markov ha dichiarato che Washington sta “spingendo Zelenskij sulla stessa strada di Petro Porošenko”: se non comincerà a adempiere quanto previsto dagli accordi di Minsk, “approvati dall’Unione europea, allora, in conformità con la Carta delle Nazioni Unite, che esige l’assicurazione dei diritti umani e la protezione della vita delle persone”, si sarà costretti ad “avviare il processo di riconoscimento giuridico di L-DNR” e, dopo, verrà la firma “di un accordo militare sull’assistenza reciproca”. Dunque, ammonisce Markov, se “Vladimir Zelensky desidera un tale sviluppo degli eventi, allora deve tenere al suo posto quel provocatore di Bessmertnyj e mantenere il suo criminale di guerra Avakov” al Ministero degli interni.
Più che un “Servo del popolo”, il partito del nuovo Presidente ucraino sembra un valletto di Washington.
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